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P.M.156
La Divisione “Fantasma”

di Mario BONACINA

da Il Corriere Postale n. 8  del Circolo Filatelico Bergamasco

II parte
 

I disperati dell’A.R.M.I.R di Sirio Sintoni

 

Forlì, 16 Settembre 1993.
Come le avevo promesso le invio una mia corrispondenza
di quei giorni tragici, vissuti da tutti i fanti e alpini di quella guerra.
Inoltre voglio dimostrare come ho cercato di ricordare tutti coloro che sono mancati nel cinquantenario della loro scomparsa, l’unico (articolo) apparso nella stampa nazionale. Ora che tutti quei morti
non servono più a chi per tanti anni ha speculato su quella tragedia, tentano di dimenticarli.
Suo Sintoni Sirio.

Ps. Lo devo soprattutto a chi come lei ha avuto parenti scomparsi.




Io, testimone di quella tragedia.

Sono già trascorsi 50 anni da quella sera del 17 gennaio 1943 quando, per due giorni consecutivi, avevamo respinto gli attacchi delle fanterie russe alle nostre postazioni sulla riva occidentale del fiume Don.
Chi poteva immaginare allora che da quei primi attacchi stava per iniziare la fine dell’A.R.M.I.R. che, da due anni, combatteva in Russia a fianco dell’alleato tedesco e che si concluse come una delle più grandi catastrofi della Seconda Guerra Mondiale, di cui noi, pochi sopravvissuti, portiamo ancora oggi quei vecchi ricordi pieni di dolore, di angosce e di paura. Ogni anno di questi tempi rispuntano sempre puntuali le scene vissute durante la lunga ritirata, e di quanti, feriti o congelati, perdevamo lungo i 400 km di piste in-nevate mentre invocavano l’aiuto che nessuno di noi poteva dare.
Tutto incominciò quando il 16/17 dicembre 1942, la divisione alpina “Julia” venne trasferita d’urgenza a sud in appoggio della divisione “Cosseria” per contrastare e contenere il più possibile l’avanzata dei russi.

Fronte Russo 1942–1943: Sirio Sintoni. (Archivio Sintoni)

Fu allora che la mia divisione di fanteria “Vicenza”, trovandosi nelle retrovie a presidiare le zone occupate, venne inviata immediatamente ad occupare il lungo tratto dei fronte sul Don lasciato dalla divisione “Julia”.
Per chi non lo sapesse, la divisione “Vicenza” era formata dalle reclute della classe 1922 e da soldati provenienti da altri fronti. Io per esempio rientrato dalla Grecia per una grave infezione intestinale, finita la convalescenza, fui riconosciuto abile ed inviato alla “Vicenza” in partenza per il fronte russo.
La divisione era composta da due reggimenti: il 277° ed il 278°.
Era carente in tutto, dai mezzi di trasporto agli armamenti ma, soprattutto, nel vestiario. Praticamente indossavamo le divise che avevamo in patria.
Privi di scarponi da neve,senza pastrani foderati, sprovvisti dei passamontagna di lana che si dovevano portare in testa sotto all’elmetto. Alla partenza dall'Italia ci venne fornito solo
un para orecchie di lana grigio-verde che nessuno riusciva a portare perché inservibile, e una piccola scatoletta di anticongelante. L’armamento era costituito da mortai D45 e 81, inoltre, ogni reggimento era dotato di una compagnia cannoni anticarro da 47/32 trainati da muli.
In totale la divisione era composta da 12.500 uomini e venne inviata in prima linea in pieno inverno in quello stato. Fu un vero genocidio per il quale nessuno ha mai pagato.
Le nuove generazioni devono sapere e conoscere.
Come dimenticare quel primo attacco sferrato dai russi all’alba del giorno 16 gennaio, e l’infernale cannoneggiamento sulle nostre postazioni dalle artiglierie russe.
La corsa degli uomini del plotone, ancora addormentati, usciti dal dormitorio e costretti a sdraiarsi lungo i camminamenti sulla neve per ripararsi dalle schegge che sciabolavano nell’aria.
Quando poi, cessato il bombardamento vedemmo i primi reparti di fanteria russa, protetti da una leggera nebbiolina artificiale, che indossavano la tuta bianca per confondersi con il bianco che li circondava e dirigersi di corsa verso i nostri reticolati con in mano i corti Parabellum e gridando:
Urrà….Urrà….Urrà… capimmo che anche nel nostro settore le cose stavano per precipitare.
In quel momento la risposta degli alpini del Vestone fu immediata e devastante.
Anche noi con l’anticarro sparavamo con tiri rapidi lungo la scarpata della riva opposta, soprattutto la dove maggiormente scendevano le fanterie.
Rivedo sempre nei miei ricordi i primi soldati russi colpiti a morte cadere sotto il letto del fiume gelato. Vedo il ritorno dei feriti ripiegare verso la riva opposta e ì portaferiti raccogliere i più gravi caricandoli in piccoli slittini che si portavano dietro e raggiungere di corsa la riva opposta. Come dimenticare i volti degli uomini del plotone, con le armi fredde in mano da molto tempo, con la paura che al momento opportuno non avrebbero sparato. Con le divise sporche di neve, tesi e preoccupati non solo per l’attacco dei russi, ma per il grande freddo, con i piedi nella neve che, con le scarpe che avevamo, gelavano subito diventando veri zoccoli di legno che andavano tolti subito dai piedi.
Meno 35 gradi quel mattino. Ricordo ancora l’aurora del giorno dopo, 17 gennaio, dopo esser stato sveglio per tutta la notte a pensare perché mai dal nostro comando era arrivato l’ordine di abbandonare per le ore 20 la postazione. Il tutto doveva essere fatto in fretta. Arrivati al fosso anticarro fummo raggiunti da un contrordine scritto di ritornare indietro. In caso di attacco nemico resistere ad oltranza fino alla morte. Ritornammo nel nostro bunker sudati, stanchi e con la morte nel cuore.
Non potevo dormire, uscii fuori e raggiunsi le sentinelle nella postazione, faceva ancora buio. Vi trovai anche il Tenente assieme al Sergente Maggiore che, col cannocchiale, osservavano le linee nemiche. Preoccupato guardai il fiume, in parte ancora nell’ombra mattutina, e con sorpresa notai che durante la notte i russi avevano raccolto tutti i loro morti dal letto del fiume.
Pensai subito al soldato ferito che avevo visto il giorno prima, quando stava per terminare il combattimento chiamare aiuto fino a notte inoltrata con voce che, con il passare delle ore, si affievoliva sempre di più: chiamava… Mama…Mama…ci tenne in apprensione per tutto il tempo con le sue grida. Gli augurai che l’avessero salvato.
Quel mattino arrivò puntuale anche l’attacco dei russi, si ripetè l’inferno delle artiglierie poi, dal costone, ripresero a scendere sul fiume piccole squadre di soldati in fila indiana, distanziati l’uno dall’altro si dirigevano verso l’isolotto che rimaneva sulla nostra sinistra, quasi al centro del fiume. Osservando bene scoprimmo che si trattava di una mitraglia pesante. Il primo gruppo ci arrivò quasi al completo, nascondendosi fra le sterpaglie secche, poco dopo la mitraglia prese a battere le nostre postazioni. Quel giorno si temeva un attacco in massa anche con i carri armati, proprio sulla nostra sinistra. Fortuna volle invece che anche per quel giorno non succedesse niente. Forse i russi volevano accertarsi quali potevano essere i punti più deboli delle nostre difese. Calò la sera, tutto il fronte tornò silenzioso. Entrammo nel nostro dormitorio freddo perché la sera prima quando avevamo deciso di andarcene, la stufa era stata rotta affinchè i russi non se ne potessero servire. Eravamo semi-assiderati, contenti però di avere vissuto un’altra giornata in più. Quella sera il rancio non arrivò, il telefono, a causa del bombardamento, era saltato e dal comando nessuno si fece vedere (troppo pericoloso, pensai).
Era buio quando arrivò il Tenente dal comando e, tutto agitato, disse:
“Ragazzi, questa sera, alle 17 precise, abbandoniamo tutto, smontate il pezzo anticarro e dallo zaino togliete il superfluo, riempitelo di bombe a mano e cartucce: ne avremo bisogno.
Cammineremo per tre giorni. Poi saremo salvi”. Gli uomini seduti sulla paglia fresca, non si scomposero.
Rimanemmo tutti silenziosi. Sembrava troppo facile, ormai non ci credevamo più.
Cercai di mantenermi tranquillo perché per molti io ero un punto di riferimento, solo perché provenivo dalla Grecia, ero un anziano, dicevano loro. Mi tolsi le scarpe e mi massaggiai i piedi freddi con tutto l’anticongelante che avevo, mi infilai i calzettoni di lana grossa che mia madre mi aveva dato prima di partire pregandomi di metterli solo quando avrebbe fatto molto freddo.“Povera mamma, se mi avesse visto in quel momento sarebbe morta di crepacuore”. Mi alzai dalla parete di terra rossa del bunker, sopra al mio giaciglio, staccai la sua foto e quella della mia ragazza, le baciai entrambe e le misi in mezzo al mio diario e me lo infilai nella cacciatora della mia giacca. Come mi sembrarono lunghi quei minuti di attesa nel bunker sempre più freddo, accesi l’ultima sigaretta e le feci fare il giro del bunker invitando a dare solo una boccata per ciascuno. Guardavo il tremolio della fiammella del piccolo lumicino a petrolio e le ombre egli amici seduti per terra, con gli elmetti in testa appoggiati sul moschetto tenuto tra le mani, sommersi nei loro pensieri, in attesa di quell’ordine che non arrivava mai. Il Tenente guardò l’orologio, poi aprì la porta. Uscirono per primi i sergenti,seguiti poi dai 23 uomini del plotone, ognuno verso il loro destino: erano le ore 17 del giorno 17 gennaio. Fuori, inghiottiti nel buio della notte, guardai in cielo le stelle che mi parvero più piccole e più lontane. Non mi ero accorto che stavo piangendo in silenzio. Il Tenente che mi camminava davanti si fermò e, dalla cintura estrasse la pistola lanciarazzi, sparò un colpo giù verso il fiume: il razzo bianco solcò il cielo e cadde lontano. Poi mi passò il suo moschetto dicendomi “spara”, avevo tanta rabbia che scaricai l’intero caricatore. Giù nel fiume un alpino solitario del Vestone sparò col suo mitragliatore, sembrava una notte come tante altre trascorse sul Don.
Arrivammo alle nostre cucine, gli addetti erano già partiti, ad attenderci però c’erano i nostri conducenti con muli e slitte. Arrivarono anche gli altri plotoni; la compagnia si stava ricomponendo, in quel momento mi sentivo più tranquillo e riprendemmo la marcia a forte andatura.

Si alzò il vento del nord, nel cielo apparvero grosse nubi, si fece più buio e la colonna au-mento ancor più l’andatura; il sudore cominciò a bagnarmi la fronte sotto il berretto di pelo, il respiro si faceva sempre più pesante e l’alito al contatto con l’aria fredda gelava. Mi strinsi forte il berretto di pelo sotto il mento. Il quel momento il pensiero corse alla contadina russa che me lo fece, assieme ai guanti, proprio l’ultima notte quando seppe che l’indomani partivamo per il fronte. Quando me li consegnò piangeva e toccandomi la divisa mi faceva capire che così vestiti saremmo morti tutti e, con la mano sinistra, si segnava la fronte alla maniera russa. Le dissi: ”Grazie Mamuska”. Da altre piste arrivarono le prime squadre degli alpini del Vestone, poi seguirono le compagnie che cercavano i loro battaglioni, nomi che non avevo mai udito: l’Edolo, il Valchiese. Uomini carichi di armi chiamavano ad alta voce i reparti, i paesani, in tanti dialetti e bestemmie a non finire. Barbe lunghe come la notte; tutti avevano una gran fretta mentre la colonna si ingrossava sempre di più. Dietro di noi lasciavamo una scia puzzolente di sporcizia e sudore. Il vento aumentò, le grossi nubi portarono la bufera di neve.
Le raffiche forti del vento ci costringevano a camminare curvi su di noi: uno dietro l’altro senza perdere mai il contatto con chi ti camminava davanti. La neve, diventata sempre più fine a causa del grande freddo, gelava sul pastrano, sul berretto e faticavi a togliertela di dosso. Di tanto in tanto, durante la grande corsa,si udiva l’urlo disperato di qualcuno seguito sempre da una bestemmia, cedevano già i più deboli, i più malandati. Durò così per tutto il resto della nottata. Alle prime luci del mattino, dopo 12 ore di marcia, la bufera di neve cessò, così pure il forte vento ma il cielo rimase scuro e minaccioso. All’orizzonte in mezzo ad un pulviscolo di neve apparve finalmente un grosso paese: Podgornoje.
In tutta la notte avevamo percorso circa 40 km. Affamati, stanchi, con gli occhi gonfi dal sonno, compimmo l’ultimo sforzo col pensiero fisso di trovare le nostre cucine in funzione e di bere finalmente una bevanda calda. Chi avrebbe mai immaginato di trovare nelle retrovie una situazione così drammatica e disperata? Colonne di soldati italiani, tedeschi, di ogni arma provenienti dal sud, ostruivano tutti gli accessi alla cittadina, costringendoci a sostare sulla strada, a nulla valsero le grida dei nostri ufficiali contro la massa per farci passare. Guardavamo increduli un gruppo di artiglieria a cavallo che si portava dietro diverse slitte piene di soldati feriti, fasciati alla meglio, con bende sporche di sangue. I conducenti frustavano le loro bestie pretendendo una precedenza che nessuno concedeva. Cingolati tedeschi con sopra soldati infagottati nelle loro pellicce con ai piedi i famosi valinki di feltro che gridavano Raus, Raus, Pista, Pista, spingendo tutti nella neve alta. Gruppi di soldati dai piedi fasciati con strisce ricavate dalle coperte, mentre le scarpe pendevano legate agli zaini. Altri, invece, senza più il fucile, le coperte le avevano in testa per riparasi dal freddo: affamati, stanchi, giravano in gruppi cercando i loro reparti o i paesani. Furono questi ad informarci che la città di Rossosk era già da due giorni occupata dai russi. Così ci apparve l’alba del 18 gennaio. Scene indescrivibili. Gli ufficiali furono chiamati a rapporto al comando di divisione; noi potevamo solo muoverci a turno, purchè si rimanesse sempre nei paraggi. Trovai gli amici di Forlì e ci stringemmo in un unico abbraccio ed insieme scoprimmo le sussistenze. Gli addetti se ne erano andati, i magazzini erano pieni di ogni ben di Dio: sacchi di riso, pasta, cassette piene di scatolette di carne e di pesce, salami, prosciutti e tante sigarette; ognuno badava a mangiare il meglio. Fusti pieni di cognac e, nel cortile, cataste di botti piene di vino congelato che, naturalmente, si trovò subito il sistema di prendere. Si sfasciavano le botti e il grosso blocco rosso di ghiaccio veniva preso d’assalto da decine di baionette, si riempivano poi le gavette e quindi, tutti attorno ai piccoli fuochi accesi, lo scioglievamo. Per tutti fu una manna. In quel momento, finalmente con la pancia piena, dimenticammo tutti i nostri guai: i russi, la ritirata e persino il freddo. Con il cognac, invece, era tutto più facile. Con un colpo di moschetto, sparato sul fusto di metallo, ne usciva a fontanelle che riempiva poi gavettini e borracce. Con quello però non si poteva scherzare: molti soldati, i più soli, quelli che avevano perso ogni speranza, affogarono il loro dolore nell’alcool.
In giro si notavano già oltre agli ubriachi, corpi riversi sulla neve che il grande gelo si era portato via.
Quel giorno a Podgornoje, le ore scorrevano lente mentre le colonne di uomini e mezzi continuavano a passare. Era già sera quando arrivarono i nostri ufficiali e si seppe che noi della Vicenza saremmo partiti per ultimi: avremmo fatto la retroguardia alla divisione Tridentina. Davanti all’ingresso dell’ospedale militare sventolavano due bandiere: una della patria e l’altra della Croce Rossa.
Dalle finestre i feriti meno gravi, piangendo, ci gridavano i loro nomi, le loro città, mentre altri, non potendo resistere oltre, uscivano dal portone zoppicando, altri ancora con ampie fasciature sulle ferite, cercavano di raggiungere la colonna, chiedevano aiuto ai conducenti delle slitte.
Gli infermieri destinati a rimanere in ospedale con i feriti tentavano inutilmente di trattenerli: scene strazianti che non si dimenticheranno mai. Intanto le isbe si vuotavano e altri che sopraggiungevano vi entravano per passarci la notte.
Era notte fonda quando il nostro battaglione si accodò all’ultima slitta degli alpini; poi toccò alla nostra compagnia. Attraversammo la ferrovia e in silenzio, sotto il peso degli zaini pieni di munizioni e bombe a mano, affrontammo la ripida salita. Giunto in cima mi voltai indietro a guardare per l’ultima volta il paese: bruciavano le isbe e le sussistenze.
Lontano, più a sud di Podgornoje, tuonava il cannone. Tre giorni di marcia, ci era stato detto; uno si era già concluso e, fra meno di un’ora, stava per iniziare il secondo. Era il 19 gennaio 1943. Le corte giornate e le lunghe notti passavano tanto lente che dimenticai il conto.
Vennero le grandi battaglie: Postojalwi, Nowokarkowa, Skeliakino, la valle della morte di Warnarowka, Malakiewa. Finimmo i viveri, finimmo le munizioni, le armi non sparavano più e cedettero anche i muli, perdemmo la divisione, poi il nostro reggimento e poi ancora la nostra compagnia.
Una notte il villaggio venne attaccato dai partigiani a colpi di mortaio e una granata scoppiò proprio vicino al nostro gruppo: tre dei nostri amici si accasciarono sulla neve feriti gravemente.
Alla ricerca disperata di una slitta, riuscimmo a rubarla ai tedeschi, poi via la fuga disperata nel buio, unendoci ad un gruppo di artiglieri della Julia. Il 26 gennaio arrivammo anche noi sull’altipiano che sovrasta Nikolajewska dove, fin dal mattino, quel che restava della divisione Tridentina, cercava disperatamente di sfondare le difese russe, trincerate oltre il terrapieno della ferrovia.
Difficile dire in quanti eravamo bloccati su quell’altipiano: 10,15 o 20 mila uomini, più bestie, stanchi, affamati e infreddoliti; slitte piene di feriti o congelati che, per la lunga attesa, presero a lamentarsi. Arrivarono dal cielo anche due aerei russi che volavano a bassa quota (questa volta però non ci lanciarono i volantini lasciapassare come quando prendemmo posizione sul Don), ma furono veri mitragliamenti e lanci di bombe sulla massa umana. Quella sera, quando il sole tramontò oltre le basse colline, si fece avanti in noi la paura di rimanere lì bloccati per tutta la notte: per molti avrebbe significato la morte bianca. Il miraggio di quei camini che fumavano oltre la ferrovia, mise in agitazione la massa accalcata, i più decisi cominciarono a scendere il pendio. Anche noi prendemmo la nostra decisione: uno rimase con la slitta dei feriti e in tre, con le poche armi disposizione, più le bombe a mano tedesche trovate nella slitta, scendemmo seguendo la massa inferocita che prese a ondeggiare, senza guardare chi cadeva attorno.


Nikolaevka: il tunnel della salvezza (Archivio fotografico Silvia Falca, foto del 7 agosto.2011)

Si levarono le voci di tanti in ogni lingua, in tutti i dialetti, con tutta la voce che tenevano in corpo, precipitammo giù lungo il sottopassaggio della ferrovia. Nel buio della notte il cielo si illuminò dagli scoppi delle granate e delle traccianti fosforescenti delle mitragliatrici russe; questa volta nessuno si fermò.
Mi fermai io invece, per un attimo, nel vedere un vecchio soldato dai capelli bianchi ferito, seduto sulla neve sporca di sangue; poco lontano stava il suo cappello da generale alpino riverso sulla neve. Andai per soccorrerlo, ma lui, con la mano che ancora poteva muovere, mi respinse dicendomi: “Non ti fermare ragazzo, vai, corri verso il tunnel, la c’è la salvezza”.
Fu proprio così. Aumentarono i morti, centuplicarono i feriti che poi diventarono altri morti.
Le colonne diventarono gruppi che si facevano ogni giorno sempre più piccoli, sempre più distanziati l’uno dall’altro, fino a perdersi nel grande mare bianco della steppa russa.
La compagnia anticarro partì da Bergamo in una giornata calda e afosa in 220 uomini; quando ci contammo quel giorno del 3 febbraio 1943 a Logowoje, eravamo rimasti in 11, al comando dell’unico graduato il Sergente maggiore del IV Plotone.

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