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«ALLE SACRE MANI DI SUA MAESTÀ» |
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Giuseppe Pandolfo | ||||||||||||||
«Il mio popolo non ha bisogno di pensare: io m’incarico di aver cura del suo benessere e della sua dignità», ma «guai s’egli si raddrizzasse sotto gl’impulsi di questi sogni, che sono sì belli nei sermoni dei filosogi ed impossibili in pratica!» Se i Borbone sono il cuore di Napoli – la dinastia che ne interpretò, se non la versione più bella, di sicuro la più autentica – Re Ferdinando II è il cuore dei Borbone: un pater familias consapevole del suo potere di monarca assoluto, che non si limitò a occupare il trono ma lo riempì in tutta la sua capienza. Il folklore tramanda che il Principe ereditario Francesco, ancora fanciullo, nell’additare dal balcone della Reggia il via vai dei napoletani in piazza, chiedesse al padre se davvero li avrebbero potuti uccidere a comando. «È vero, figliuolo» – avrebbe risposto il Re – «ma ce lo impedisce la nostra sacra religione.» Solo Dio vantava un potere superiore a quello del Re di Napoli, e poteva così fissare così un argine alle sue azioni, ma per tutto il resto era il Re – e solo il Re – a valutare l’opportunità di ogni concessione. “Lo Stato sono io” – dopo Luigi XIV – non trovò applicazione più perfetta di Ferdinando II, e quando un regnicolo subiva un torto – senza trovare poi soddisfazione – esclamava invariabilmente «ce la vedremo quando viene il Re.» E il Re veniva, si presentava e giudicava, condannava e amnistiava, a volte senza pietà, altre con emozione, altre ancora con esitazione. Restò indifferente quando la moglie di un profugo politico gli chiese di revocare il sequestro dei beni del marito («La vostra famiglia è pericolosa alla Società; dovete avere quanto vi basta per vivere; andate») e non si commosse neanche davanti al pianto dei bambini che la signora aveva portato con sé, nella speranza di intenerirlo. Ma quando una donna, sollevata dalla folla, si aggrappò allo sportello della carrozza reale per domandare misericordia per il bandito Niccola Morra, il Re le appoggiò la mano sulla spalla e acconsentì: «Digli che si presenti; avrà la grazia… digli che avrà la grazia». Visse più d’un tormento nel dover condannare a morte il soldato Agesilao Milano, che l’8 dicembre 1859 aveva provato ad assassinarlo, al punto che girò voce di una possibile grazia, al punto che il giorno dell’esecuzione il Re fu visto piangere, al punto che il fidato Raffaele Criscuolo lo ammonì con la consueta familiarità: «Ma s’aveva da dispacè tanto, potevate fa a grazia a ’o calavrese: site vui ca cummanate». Era Re Ferdinando che comandava, soltanto Re Ferdinando, e «coll’ajuto di Dio, io darò al mio popolo la prosperità e l’onesta amministrazione cui ha diritto, ma io sarò re solo e sempre».
Teresa, Margherita e Pascalina – tre sorelle «in mezzo ai travagli», «immerse in un oceano di miserie» – «umilmente espongono alla Maestà sua» il loro caso: denunciano di essere «vessate dai creditori», implorando Re Ferdinando, «da qual Padre benefico verso i suoi sudditi», di «ordinare la sospensione di ulteriori atti giudiziari». Le tre sorelle sono rimaste orfane di padre nel 1811 e hanno poi perso anche il fratello. Nel 1854 alla loro porta bussano gli eredi di un tal Pietro Maggio, che nel 1803 aveva concesso un mutuo di 100 ducati agli uomini di casa – «con l’interesse convenzionale dell’otto per cento» – e di cui ora pretendono il rimborso integrale. Le donne – «femmine sole e prive di qualunque ombra» – sono spiazzate e incredule, ché «nulla sapevano di un tal debito». Provano a opporsi, anche se non sanno «cosa eccepire se non la prescrizione»; ma «chiamate in giudizio pel cennato mutuo» si vedono condannate «al pagamento del credito e ad un trascino di interessi, che superano di molto il capitale». Si piegano a pagare tutto quel che vi è da pagare, «togliendosi anche il proprio vitto».
Ma i creditori tornano a picchiare alla porta. Sostengono che non tutti gli interessi sono stati pagati all’epoca dal padre delle tre sorelle, giocando sulla mancanza delle relative quietanze. Questo è troppo, e le donne si rivolgono direttamente al Re, «atteso [che] un creditore tanto attaccato all’interesse ed oculato nei suoi affari, come era lo Pietro Maggio, non avrebbe abbandonato questo sì lungo tempo il suo credito senza esigere neanco gli interessi» e perciò «sperano ordinargli da parte di Sua Maestà la desiderata conciliazione», lo pregano di «accogliere la loro verità».
Non conosciamo la fine della storia, ma voglio cullarmi nell’idea che Re Ferdinando sia stato di parola: che tre donne «prive di qualunque ombra» abbiano trovato protezione nelle «Sacri Mani di Sua Maestà», che il Re delle Due Sicilie le abbia sollevate da ogni pensiero e preoccupazione, che si sia incaricato del loro benessere, che abbia tutelato la loro dignità. • Blog www.aldiquadelfaro.blogspot.com • Chiavarello, G. • De Cesare, R. • Montanelli, I.
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