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  Riflessione su: i fatti di Renzino
di Giuseppe Alpini

PERCORSO: Dal Fascismo alla Liberazione > questa pagina

 

Riflessioni offerte dalla lettura della Tesi di Laurea: “I FATTI DI RENZINO - MOVIMENTO SINDACALE E SQUADRISTI A FOIANO (l9I9-1921)“, redatta da Giulio Bigozzi, nell’A.A. 1993-94 – Università degli Studi di Siena, Facoltà di Giurisprudenza, Corso di Laurea in Scienze Politiche.

Il clima storico-politico, nel quale si svolsero i fatti di Renzino, è stato oggetto di analisi e studio compiuti da vari ambiti del mondo culturale (tesi di laurea, pubblicazioni a cura di Enti pubblici ecc.), ma ancora oggi, a distanza di quasi un secolo da quei tragici avvenimenti, si avverte la necessità di riesaminare quel periodo che ha così profondamente inciso nella storia della Valdichiana e nell’immaginario dei suoi abitanti.

Come si sa agli inizi del secolo XX in Valdichiana prevaleva l’agricoltura che era, per tradizionale consuetudine, caratterizzata dalla conduzione a mezzadria. Questo tipo di contratto a causa della disparità degli impegni del padrone e del mezzadro, produceva nella popolazione contadina quella contrapposizione di interessi potenzialmente gravida di conflitti sociali che condurranno nei primi anni del secolo XX ai primi scioperi nella Valdichiana senese, fino a giungere ad episodi di vera e propria guerra civile nell’immediato primo dopoguerra.

Gli anni di inizio secolo videro infatti, dopo secoli di rassegnato immobilismo, incrinarsi il rapporto mezzadrile e, finalmente, la categoria dei lavoratori della terra si presentava nell’agone per la tutela dei propri diritti mettendo in crisi il mito, costruito dalla parte padronale, secondo il quale la mezzadria aveva creato un particolare tipo di società giusta e felice. Fino ad allora si era fatto credere anche che Il contratto mezzadrile rappresentasse l’immunizzazione contro le agitazioni sociali che travagliavano la nascente industria oltreché essere lo strumento fondamentale per il progresso nel mondo agricolo.

Così, nonostante l’arretratezza dei metodi di coltivazione, le basse rese, le misere condizioni degli addetti al lavoro dei campi (braccianti e mezzadri) riconosciute anche dai Comizi Agrari e dalle inchieste governative, si continuava a sostenere e a difendere la validità degli arcaici e feudali patti colonici.

D’altra parte questo immobilismo aveva una sua ragione d’essere se visto dalla parte padronale: il contesto era già stato descritto dettagliatamente da un agronomo toscano (Giuliano Ricci, “Delle condizioni generali dell’agricoltura toscana” in “Giornale Agrario Toscano”, 1838) che così aveva ben rappresentato la condizione contadina in Toscana. Un fenomeno politico più interessante e più desiderato: una classe povera, numerosa e potente, che per proprio volere obbedisce alle leggi ed alle leggi offre l’appoggio e la difesa più valida, anziché resistenza ed ostacoli”.

Fu così che le prime agitazioni, i primi scioperi, la formazione delle Leghe contadine, cominciarono a mettere i primi sbarramenti al sistema: proprio a quei blocchi ai quali faceva riferimento il Ricci. Con l’inizio del secolo si iniziò così a mettere in discussione l’essenza stessa del rapporto di mezzadria, ed il suo essere, oltre che forma di conduzione agraria obsoleta, anche sistema consolidato di controllo sociale e politico delle masse contadine.

Da subito, fin dalle prime avvisaglie della presa di coscienza da parte dei lavoratori sia della propria condizione che dei propri diritti, esplode l’opposizione intransigente della classe padronale. La lotta si registrò soprattutto contro la formazione delle prime Leghe attraverso le quali la classe dei mezzadri, fino a quel momento notoriamente conservatrice, dava inizio alla rivendicazione del riconoscimento dei propri diritti sintetizzati nel motto: “siamo cittadini come gli altri”.

Lo scoppio della prima Guerra Mondiale e la partenza per il fronte di moltissimi giovani provenienti dal mondo dei campi, rinviò per qualche anno il problema e, anche se il conflitto in Valdichiana si udì da lontano, esso ebbe gravi conseguenze perché i morti non tornarono e spesso non tornarono neppure le salme. In molte famiglie si pianse, anche in quelle piccolo borghesi, ma nelle abitazioni coloniche si lamentò anche la mancanza di braccia, perché chi è morto non lavora.

I reduci dal fronte erano cambiati, erano davvero… molto diversi da come erano partiti. Anni di sacrifici, di rischi, di atrocità subite e fatte, lo scambio di esperienze e di aspettative avevano trasformato il loro modo di pensare e di concepire la realtà.

A questo stato d’animo va aggiunto il fatto che il Governo aveva fatto credere ai soldati che al loro ritorno le cose sarebbero cambiate, che il latifondo sarebbe scomparso e che la terra sarebbe stata assegnata ai contadini.

Sulla base di queste promesse e aspettative i reduci tornarono a casa con un bagaglio di speranze in una vita migliore. Le promesse non vennero mantenute, anzi, man mano che si procedeva nella smobilitazione, appariva loro, nella sua estrema crudezza, il volto della triste realtà che li attendeva.
Non solo non vennero distribuite le terre che avrebbero dovuto risolvere il problema del lavoro ma, anzi, il problema della disoccupazione si fece sempre più grave travolgendo non solo i braccianti e gli operai, ma anche i figli della piccola borghesia.

Questi ultimi, in quanto forniti di una certa istruzione, avevano ricoperto il ruolo di ufficiali o sottoufficiali. Si erano abituati al comando e ad avere in tasca qualche soldo da spendere, oltre che a vivere la vita come “avventura” secondo il racconto di certa letteratura.

Tornati a casa non si seppero riadattare alla vita monotona di ogni giorno e, quindi, furono pronti a cogliere qualsiasi azione che desse un senso al loro vuoto esistenziale e, mentre bighellonavano insoddisfatti nelle piazze, divorati dall’ozio e scontenti di sé stessi e del prossimo, delusi prestavano orecchio ai proclami più o meno rivoluzionari che a partire dalla lontana Russia o dalla più vicina Fiume giungevano loro.

Questi giovani che negli anni di guerra erano stati capaci di azioni eroiche, come di azioni atroci, dopo l’armistizio ed i trattati di pace, si sentirono presi come da un vortice di confusione, poiché non solo non avevano di che vivere, ma anche mancavano di speranza nel futuro. Di conseguenza, mentre alcuni si mescolarono durante il “biennio rosso” nel movimento socialista, altri, i più, andarono a formare i primi nuclei fascisti.

Nel frattempo la situazione economica si aggravava sempre più specialmente per il rincaro impressionante del costo della vita. Basta ricordare, a questo proposito, che al valore delle cento lire di prima della guerra ne corrispondevano, adesso, ben 425 e si giunse addirittura alla mancanza di alcuni generi di primissima necessità.
In questo clima di malcontento che serpeggiava tra le varie classi più colpite (operai, contadini, ma anche piccola borghesia), si moltiplicarono gli scioperi e si iniziò l’occupazione delle fabbriche.
Così, ad esempio, nel solo 1919, in Provincia di Arezzo si ebbero nelle industrie ben 20 scioperi. A questi si associarono gli scioperi dei maestri, dei pompieri, dei ferrovieri e dei contadini.

Gli scioperi dei contadini in Valdichiana iniziarono nel giugno del 1919 ed ebbero come loro epicentro Foiano, che era stato individuato fin dai primi del XX secolo, come la sede della Federazione delle Leghe dei lavoratori della terra e della sua segreteria. Il segretario in quel momento era Attilio Bigozzi.
Obiettivo delle agitazioni era il rispetto dei “diritti morali” dei contadini fra i quali, piace sottolineare, “la libertà di matrimonio” e “l’obbligo del proprietario di mantenere le case coloniche in condizioni in linea con l’igiene moderna e la civiltà”.

La lotta si presentò aspra poiché i proprietari reagirono con tutti i mezzi a loro disposizione fino a far richiamare sotto le armi gli organizzatori foianesi più attivi e ad invocare l’intervento delle autorità come fa fede il seguente telegramma inviato al Prefetto di Arezzo: ”…sotto l’impressione violenze, incendi, impedite trebbiature minacciasi abbandono bestiame, attentasi vita, averi chi resista. Questa Associazione reclama immediato intervento potere pubblico tutela libertà lavoro, integrità beni, persone. Associazione Agraria Toscana”.

Gli agrari cominciarono anche ad avvalersi di squadre armate che non si limitarono ad usare violenza contro i contadini, ma anche appoggiarono la ricca borghesia imprenditoriale che aveva tutto l’interesse a limitare, se non possibile annullare, le conquiste proletarie. La verità fu che “i padroni” non potevano sopportare il clima politico-sociale che si stava formando fra i lavoratori della terra e dell’industria che avevano conquistato un potere contrattuale tale da consentire, per esempio, ai lavoratori delle miniere del Valdarno la giornata lavorativa di sei ore e mezza ed ai contadini della Valdichiana la stipula di nuovi patti agrari.

Tuttavia le divisioni locali, ma soprattutto la scissione di Livorno, indebolirono fortemente il fronte dei lavoratori consentendo così al padronato di riprendere forza protetta anche dalla palese complicità della classe dirigente italiana a partire dalla monarchia e dal governo, che credettero di limitare l’avanzata socialista servendosi dei i fascisti nei momenti del lavoro più sporco pensando poi di disfarsene, ma… la Storia, non fu così.

Il fascismo, che si era affacciato nell’aretino nel dicembre 1920, in breve tempo dilagò. mostrando il suo volto dapprima con episodi saltuari, poi, sempre più con azioni sempre meglio programmate e finalizzate a colpire là dove i “rossi” erano più forti ed a Foiano erano veramente forti e, soprattutto dopo il congresso di Livorno, quasi tutti comunisti.
Era logico che il paese fosse al centro della repressione e delle azioni delle squadre fasciste.
Le imprese squadriste venivano organizzate quasi tutte a Firenze ed a queste, strada facendo, si aggregavano anche individui locali.

Vestiti di camicia nera ed armati di manganelli, di pugnali, ma anche di armi da fuoco, i fascisti imponevano le dimissioni alle amministrazioni rosse, devastavano le sedi e le tipografie socialiste e le cooperative rosse. Picchiavano e purgavano con olio di ricino i capi socialisti, i dirigenti delle leghe e dei sindacati, mentre le forze dell’ordine, quando erano presenti, stavano semplicemente ad osservare.

Il 12 aprile 1921 i fascisti si presentarono a Foiano dove, oltre a far dimettere l’Amministrazione Comunale, compirono azioni “non senza conseguenze”.

Il giorno 17, domenica, una squadra organizzata a Firenze, ma completata con elementi di Arezzo, fece un’incursione in Valdichiana a bordo di un camion. La squadra si era autoproclamata “la punitiva”.
A capo della squadra c’era il capitano dell’esercito, in servizio ad Arezzo, Giuseppe Fegino che aveva sottratto fucili nella stessa caserma.

Alfredo Burri, un protagonista dei fatti di Renzino, così ricorda quel giorno: “E venne questa squadra di manigoldi fascisti e tutti quelli conosciuti come sovversivi li prendevano, li bastonavano e li diffidavano a non essere più nelle organizzazioni e a non essere più comunisti”.

I fascisti giunsero in municipio, sfondarono la porta e presero le bandiere rosse. Poi si diressero al Pozzo e a Marciano dove devastarono i locali della sezione comunista e bastonarono diversi “compagni” quindi fecero ritorno a Foiano.
Durante il tragitto uno di loro, un certo Guidi, fu ferito da un colpo di arma da fuoco partita da una loro stessa pistola e venne ricoverato presso l’ospedale di Foiano e, temendo ritorsioni, gli lasciarono sette camerati di scorta.
I restanti componenti della squadra andarono a mangiare e verso le 16 risalirono sul camion e, cantando le loro canzoni, si ridiressero verso Arezzo.

Alla guida del camion c’era un certo Rossi di Firenze. Lungo il tragitto, nei punti ritenuti più idonei a vedere i ciclisti, c’erano spettatori che assistevano alla corsa Cesa – Foiano - Pozzo.
Quando il camion dei fascisti giunse a Renzino e precisamente all’altezza di casa Sarri, venne investito da più scariche di armi da fuoco sparate da persone che si erano appostate dietro le siepi.
Venne colpito anche l’autista ed il camion si adagiò nel fosso che costeggiava la strada. Quelli della squadra fascista che vi riuscirono si diedero alla fuga, gli altri, in numero di tre, furono massacrati dagli attaccanti.

La rappresaglia non si fece attendere: molte case furono incendiate mentre in serata squadre fasciste giungevano da Firenze, da Siena, da Città di Castello, da Pisa, da Montevarchi e perfino da Roma.
La mattina seguente giunse il capo dei fascisti fiorentini, il marchese Dino Perrone Compagni, che in piazza, impiantò un tribunale fascista protetto anche da una mitragliatrice. Dettero seguito quindi alle esecuzioni sommarie uccidendo uomini e donne presi semplicemente a caso.
Con la scusa di voler pacificare gli animi vennero prelevati dai rispettivi uffici di Arezzo l’avvocato Ferruccio Bernardini ed il dottor Arnaldo Pieraccini, entrambi esponenti socialisti. Scopo della cattura era quello di costringerli a parlare a Foiano denunciando le malefatte dei “rossi” che, a loro dire, avevano “avvelenato gli animi dei cittadini con il verbo di Lenin e con l’odio di classe”.
A Foiano venne condotto il solo avvocato Bernardini che fu costretto a parlare tra i lazzi ed i fischi delle camicie nere presenti.

Era stato condotto a Foiano anche un calzolaio aretino di orientamento anarchico, Gino Gherardi che cercò di fuggire, ma, catturato dai fascisti, venne riportato in piazza Garibaldi ed ucciso con 27 colpi di arma da fuoco. Il Gherardi fu la nona ed ultima vittima della rappresaglia fascista.
Successivamente, gruppi di contadini vennero convogliati al teatro di Foiano dove il fascista Tamburini chiedeva a ciascuno di loro: ”Ti iscrivi al fascio?”. Risposero: “si”.

La rappresaglia giudiziaria nei confronti di coloro che avevano partecipato all’agguato non fu meno dura. Essa si consumò nel 1924 e, tra imputati, parti lese e testimoni, coinvolse un migliaio di testimoni, ma, essendo nulli i diritti fondamentali degli imputati, il processo si concluse velocemente nel dicembre dello stesso anno.
La corte accolse la tesi dell’accusa che si basava sul delitto politico premeditato e comminò a quattro imputati la pena di 30 anni, a tre la pena di 25 anni ad altri due, pene dai 22 ai 21 anni. Pene dai 18 ai 7 anni per altri dieci imputati: la sentenza passò in giudicato il primo maggio 1925.

Attilio Bigozzi che si è detto essere segretario della Federazione delle Leghe dei lavoratori della Valdichiana nonché fratello di Giulio al quale i fascisti avevano distrutto la tabaccheria, fu l’unico che riuscì a scappare a Parigi e venne quindi condannato in contumacia.

La tabaccheria di Giulio Bigozzi

Da parte fascista le vittime di Renzino divennero simbolo di martirio e furono esaltati ad ogni ricorrenza come vittime dell’odio comunista e presentate come esempio ai giovani italiani.

L'iconografia fascista


Il clima di lotta che aveva portato ai “fatti di Renzino” venne divulgato anche nelle scuole presentandolo come uno scontro tra patriottici fascisti e rossi contadini senza patria, propagandandolo con la seguente canzoncina che veniva insegnata, con fervente orgoglio, ai bambini delle elementari:

Fascisti e socialisti
giocavano a scopone,
ma vinsero i fascisti
con l’arma del bastone”

Dall’altra parte, anche se nelle piazze i cantastorie erano costretti a tacere su questo argomento, l’episodio di Renzino non venne certo dimenticato dalla popolazione tanto è vero che uno dei capi della Resistenza locale assunse come proprio nome di battaglia quello di “Renzino”.

Renzino è deceduto il 24 gennaio 2018, il suo nome era Edoardo Succhielli ed era nato a Tegoleto il 2 aprile 1919, dopo l'8 settembre, si era avvicinato alla Resistenza, fu incaricato di formare una banda partigiana che operasse in Val d'Orcia ed in Pratomagno: essa assunse il nome di "Banda Renzino", onorando il nome della località dove si svolsero i fatti narrati in questa pagina.