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Padre Caprara, la Repubblica di S. Domenico e le Poste provinciali durante la R.S.I. | |
di Roberto Monticini | |
PERCORSI: PADRE RAIMONDO CAPRARA Per essere canonizzati occorre il riconoscimento di almeno un miracolo, Padre Caprara ne ha fatti tanti di miracoli, ma tutti laici e per questo gli è stata dedicata una via in Arezzo, proprio dietro la sua Parrocchia di San Domenico, che ha tramutato il suo nome da Via Dei Bastioni in Via Padre Raimondo Caprara. La maggior opera custodita nella sua basilica/Parrocchia è il Crocifisso del Cimabue. Meno conosciuta è invece la vicenda di Papa Gregorio X che, rientrando a Roma da Lione dove aveva convocato e presieduto un Concilio Ecumenico alcuni giorni prima del Natale 1275, si fermò ad Arezzo. Papa Gregorio soffriva di improvvise febbri debilitanti e, a causa di uno di questi episodi, fu ricevuto e ospitato nel nuovo palazzo vescovile di Arezzo, costruito dal vescovo Guglielmo degli Ubertini. Il 10 gennaio 1276 Gregorio morì nell'episcopio. Quindi, in Arezzo, proprio nella Chiesa di San Domenico, fu celebrato il primo Conclave secondo le regole della Ubi Periculum nel gennaio 1276. Raimondo Caprara naque a Terranova di Pollino, in provincia di Potenza il 28 maggio 1910, morì in Arezzo il 19 agosto 1980. Fu ordinato parroco di San Domenico nel 1938, a 28 anni, poco dopo si trovò ad affrontare i tristi eventi della guerra: "Il legame che si era creato con la popolazione fu messo alla prova - ed allo stesso tempo esaltato - dalle tragiche vicende della guerra. La città bombardata e distrutta, le minacce dei nazifascisti, nel periodo compreso tra l’ottobre 1943 ed il luglio 1944, non impedirono a padre Caprara di svolgere la propria missione di sacerdote mettendo, più volte, a rischio la propria vita.
LA REPUBBLICA DI SAN DOMENICO, RICORDI DI GUERRA di P. Raimondo Caprara guida O.P. (2), è una autentica testimonianza, vissuta in prima persona, di quanto è accaduto in Arezzo durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana, subito dopo l'8 settembre 1943. Nelle pagine autografe c'è il raccondo del dramma da lui vissuto e condiviso, non solo con i suoi parrocchiani, ma con l'intera città e non solo. Nelle pagine del libro abbiamo trovato una importante testimonianza che, di seguito, integralmente riportiamo. Si tratta del capitolo relativo al funzionamento del servizio postale nei tragici mesi di Repubblica Sociale Italiane, quando la vita cittadina si era fermata, la maggior parte degli aretini erano sfollati nelle campagne e nelle colline circostanti; di conseguenza, anche tutti i servizi risentivano dei questa situazione: in città erano rimasti soltanto i militari addetti al Distretto, alla Scuola (vuota) degli allievi ufficiali di complemento, gli ospedali militari erano 3: “Maria Federici” della C.R.I., “Vittorio Emanuele”, con sede nel Convitto Nazionale ed il “S. Caterina” in Via Garibaldi.
Gli Uffici cittadini erano stati trasferiti in piazza S. Domenico (Genio civile, alle Scuole Vasari e Poste), a S. Fabiano (Prefettura, Comune), all’Olmo (Banca d’Italia) e in Via Casentinese (scuole “Vasari”). POSTE PROVINCIALI Problema essenziale per gli abitanti di S. Domenico era tener lontano le forze armate specialmente tedesche. Perciò non fu senza preoccupazione che un giorno del dicembre del 1943, vidi stazionare in piazza alcuni alti ufficiali tedeschi. Prima che bussassero al Convento, intuendo le loro intenzioni, mi attaccai al telefono e proposi all'Economo provinciale delle Poste, Sig. Enrico Matteini, di trasferire la Direzione e i servizi delle Poste nel Convento e nel Collegio di S. Domenico. Gli dissi che non c'era possibilità di discutere le modalità né d'interpellare il Direttore Comm. Tussi e l'ispettore Dott. Gori, assenti. Dovevamo mettere il comando tedesco di fronte al fatto compiuto. Ci mettemmo d'accordo e agli ufficiali tedeschi che attendevano in portineria potei dire che i locali erano stati già requisiti per ospitare le Poste provinciali, gli uffici postali della ferrovia, nonché la Succursale n. 1. Il trasloco cominciò il giorno stesso. Così il Convento si trasformava in Sede delle poste provinciali. Fu forse la sua fortuna, ma lo fu certamente per le Poste. Non solo perché gli impiegati poterono svolgere il loro lavoro, almeno per alcune ore al giorno, con relativa tranquillità, ma anche perché nulla andò perduto del patrimonio delle Poste, dai mobili alle borse di cuoio dei portalettere. Nelle soffitte trovarono posto le macchine da scrivere, calcolatrici e tutta la roba che fu possibile trasportarvi; sotto le panche della Cappella furono nascoste le borse di un ottimo cuoio che faceva gola a parecchi. Furono salvate finanche le poltroncine e il pianoforte del dopolavoro ferroviario che, subito dopo la liberazione, per non aver voluto dar retta a me, andarono a finire a Rimini per rallegrare le truppe alleate, da cui furono requisite appena riportati nella vecchia sede.
NOTA 1) - http://www.societastoricaretina.org/biografie/CACapraraRaimondo190404.pdf (visitato il 7/2/2018)
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