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Il Mascalcia era strettamente legato alla vita contadina di un tempo, era l’arte del maniscalco, un mestiere di contorno, tanto è vero che oggi se ne conserva soltanto il ricordo.
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Cavalli, muli e asini, ma spesso anche le vacche ed i buoi sottoposti al traino, dovevano fare ricorso al maniscalco, per proteggere le unghie dall’usura provocata dalle strade.
Quando il mezzo di trasporto, unico o quasi, era il carro trainato da questi animali, in ogni paese a prevalente economia agricola, vi erano uno o più maniscalchi le cui botteghe si affacciavano, con un’ampia entrata sempre aperta, su di un portico che si trovava in genere all’interno di un cortile.
I maniscalchi lavoravano dalla mattina alla sera, soprattutto nei giorni festivi, in quanto i contadini, che in quella occasione non si recavano nei campi, approfittavano per “ferrare” l’animale ed il maniscalco poteva prestare la sua opera fino a trenta animali in un giorno.
Di solito accanto all’officina del maniscalco si trovava un’osteria, una bettola dove il padrone degli animali attendeva il suo turno per la ferratura.
All’interno della fucina c’era un grosso mantice che alimentava un fuoco a carbone che era acceso sotto un grande camino, mentre gli attrezzi ed i ferri erano appesi alle pareti. L’incudine era fissata su un grosso ceppo accanto ad una grossa vasca piena fino all’orlo di un’acqua putrida e nera.
Il maniscalco, come del resto anche il fabbro, portava un grande e robusto grembiule.
Si trattava di un mestiere umile quanto utile e, in caso di necessità, non era la bestia che si recava dal maniscalco, ma era costui che si portava nell’aia del contadino.
Quando il maniscalco si accingeva a ferrare un animale per prima cosa sceglieva un ferro già sgrossato e, dopo aver tagliata e limata l’unghia che era cresciuta o si era sciupata dopo l’ultima ferratura, dopo aver valutato “ ad occhio” di quali adattamenti il ferro aveva bisogno per calzare bene sullo zoccolo, li eseguiva con grande abilità a caldo maneggiando il ferro con lunghe tenaglie, arroventandolo più volte al fuoco e ribattendolo sull’incudine.
Se l’animale era docile era sufficiente tenerlo con le redini o per la cavezza, se invece mostrava segni di insofferenza , veniva messo intorno al muso dell’animale la “ mordacchia” e la “ pastoia” alle zampe.
A questo punto si poggiava la zampa da ferrare su uno sgabello o sulla gamba e si provava a mettere sotto l’unghia il nuovo ferro che veniva fissato piantandovi sette chiodi, quattro esterni e tre interni.
All’apparenza il maniscalco poteva apparire un personaggio dal cuore duro e dal linguaggio “rasposo”, ma, fondamentalmente era un artigiano che aveva molto amore per il suo mestiere e per gli stessi animali che conosceva bene e non solo nelle loro strutture anatomiche. Spesso infatti veniva richiesto non solo per ferrare gli animali, prima di chiamare il veterinario si domandava a lui la diagnosi dei malesseri delle bestie e addirittura gli si chiedevano anche i rimedi che lui metteva in atto con efficaci sistemi empirici.
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Non era raro il caso di maniscalchi che, a tempo debito, esercitavano il mestiere di norcino o castrino soprattutto su animali destinati all’ingrassaggio.
Questa attività poteva presentare anche grossi pericoli soprattutto nel caso di animali di grossa taglia e poteva capitare che il maniscalco portasse i segni di qualche scalciatura.
Il compenso di questo artigiano variava a seconda dell’importanza del lavoro. Egli veniva generalmente ricompensato in natura , di volta in volta, oppure al momento dei vari raccolti.
Giuseppe Alpini
7.2.2020
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