La recente sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino offre uno spunto per alcune riflessioni.
In primis, è illogico ritenere che l’attribuzione della natura demaniale di un documento filatelico possa essere desunta da una semplice rivendicazione postuma effettuata dagli archivisti di alcune Regioni.
Il termine “postuma” non va tralasciato, in quanto spesso e volentieri manca una denuncia di furto di un determinato documento o di una serie di documenti. La rivendicazione di proprietà dei documenti avviene solo a seguito di una richiesta effettuata da un soggetto terzo (spesso membro di una Sovraintendenza) a funzionari dell’archivio storico di una Regione circa la volontà di acquisire detti documenti.
Questo inconsueto iter sarebbe motivato dall’indicazione nel documento (quale destinatario se si tratta di lettera o intestatario in tutti gli altri casi) di un Ente Pubblico, quale soggetto dell’atto.
Sotto un profilo civilistico è chiaro che non basta questa semplice dichiarazione per stabilirne in modo certo la proprietà esclusiva. In termini formali, essendo documenti datati nel tempo, è necessaria la prova che questi beni fossero stati collocati in un determinato archivio, con catalogazione di ogni pezzo e relativo registro, e che siano stati successivamente trafugati o sottratti, con contestuale ed immediata denuncia.
Oltre a ciò, viene da supporre che chi pone in essere queste segnalazioni dimentica che quasi un secolo fa lo Stato Italiano ha previsto con Regio Decreto del 1928 la consegna a titolo gratuito alla Croce Rossa di numerosissimi faldoni contenenti documenti senza valore storico non meritevoli di conservazione. Ciò è dettato da due ragioni: la prima, concedere alla Croce Rossa la possibilità di autofinanziarsi mediante la vendita di detti documenti; la seconda, l’eliminazione di vastissime quantità di atti e documenti sovrabbondanti nei diversi archivi di Enti Statali anche pre-unitari (non vanno dimenticati gli interventi del legislatore tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo per regolamentare detti scarti).
In realtà già il Ministero dei Beni Culturali era intervenuto nel 2012 con un parere, col quale ha spiegato che la semplice destinazione statale non può automaticamente coincidere con l’attuale proprietà del bene, e che per ritenere l’attuale ed effettiva proprietà occorrono precisi riscontri, quali una denuncia o altro.
Correttamente l’Ufficio Legale del Ministero ha spiegato che “in linea di massima, la prova della proprietà statale delle carte sopra menzionate non possa inferirsi sulla scorta della sola circostanza che le stesse siano indirizzate a un soggetto pubblico, in mancanza di altri indizi atti a dimostrarla timbri o segnature dimostranti l’inclusione in un pubblico archivio, mancata indicazione nei verbali di scarto, denunce di sottrazione, e via dicendo”.
Altresì è stato obiettato che essendo riportato all’interno dei documenti un numero di protocollo sarebbe ciò prova sintomatica di proprietà certa dello Stato. Ciò non può ritenersi corretto, in quanto ci si dimentica che qualsiasi atto (anche una semplice lettera) rivolto alla Pubblica Amministrazione, da tempo immemorabile deve necessariamente essere registrato con un numero di registro e di protocollo, anche se verrà nell’immediato scartato, come sovente accade.
Quanto detto trova riscontro anche nel parare del Ministero: “È ben vero, infatti, che tali documenti sono certamente appartenuti per un periodo di tempo, alla pubblica amministrazione cui risultano indirizzati, ed è parimenti innegabile che tale circostanza “candida” potenzialmente i suddetti atti a confluire in un pubblico archivio. Parimenti indubitabile è che succedendo agli Stati preunitari, il Regno d’Italia e poi la Repubblica Italiana abbiano acquistato la proprietà degli archivi di questi ultimi, ciò però non basta a presumere che, ad oggi, qualunque documento di qualsiasi epoca indirizzato ad una pubblica amministrazione debba considerarsi, fino a prova contraria, un bene culturale appartenente allo Stato”
Ad oggi, questo parere nella sua interezza non è stato recepito dalle Sovraintendenze e dalle Procure della Repubblica.
Conseguentemente, nell’impossibilità di stabilirne una eventuale provenienza “delittuosa” non può essere addebitato il delitto di ricettazione ex art. 648 Codice Penale (e neppure la contravvenzione di incauto acquisto ex art. 712 stesso Codice), in quanto alla base di questo reato vi è un bene proveniente da attività delittuosa. In assenza di prove di furto o trafugamento o qualsiasi altra attività illecita, (onere probatorio che spetta a chi accusa e non a chi si difende) non può configurarsi questo reato.
Il nostro ordinamento prevede anche forme di reati più specifici, contenuti nel Codice dei Beni Culturali; queste norme puniscono chi aliena beni culturali, in forme ed azioni diverse (artt. 169 e ss Codice Beni Culturali).
Innanzitutto, è necessario precisare cosa il nostro Ordinamento intenda per bene culturale (e quindi inalienabile in determinati casi di legge). L’art. 10 del Codice dei Beni Culturali parla di documenti di interesse storico particolarmente importante.
Dagli attuali casi di cronaca giudiziaria, e la citata sentenza di Torino ne è un esempio, ad oggi risulta che le Sovraintendenze prima e le Procure poi, non si siano mai interessate alla previa valutazione e verifica della sussistenza del requisito dell’interesse storico particolarmente importante.
Viene da domandarsi cosa consista nell’atto pratico questo termine; e ancora, se una semplice busta vuota (per di più venduta per una manciata di Euro) possa essere definita tale. Inoltre, la donazione di copiose quantità di documenti alla Croce Rossa (e quindi come detto regolamentata dalla legge) deve far riflettere gli inquirenti sull’ interesse storico particolarmente importante di detti beni, riflettendo anche sul fatto che il legislatore ha volutamente utilizzato questi termini per tracciare una netta distinzione tra documenti di interesse nazionale e documenti volti al solo collezionismo dei privati.
Ora, viene ulteriormente da domandarsi se durante l’atto di segnalazione, di perquisizione, e di sequestro, questa domanda sia mai stata posta.
È superfluo precisare che la mancanza di questo requisito esclude le fattispecie di reato previste dal Codice dei Beni Culturali.
Concludendo, è inconcepibile pensare che la qualificazione storica di un documento nonché la proprietà statale, possano essere superate da una qualsiasi dichiarazione da parte di un archivista, omettendo ogni forma di dimostrazione da parte della pubblica accusa.
Ammettendo questo, ci ritroveremmo nell’assurda situazione di dover dimostrare ciò che non è dimostrabile e che non esiste, con una ulteriore ipotetica inversione dell’onere della prova a capo di chi si difende.
È pertanto auspicabile e necessario un ulteriore intervento del Ministero nei tempi più celeri, per chiarire ogni questione nell’interesse della tutela dei veri beni culturali e degli interessi culturali filatelici del collezionismo e commercio privato.
Avv. Andrea Valentinotti
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