torna a:

LA SENTENZA DEL 22 FEBBRAIO


pagina iniziale le rubriche storia postale filatelia siti filatelici indice per autori

Diritto vs Storia Postale

il contributo legale dell'Avv. Domenico DUCCI

 

La circostanza che molti, Giornalisti, Cultori di Storia Postale, Filatelisti, Politici ed Associazioni rappresentative di Collezionisti e Commercianti, si siano sentiti in dovere di intervenire sull’argomento dell’esclusiva appartenenza di certi documenti al demanio pubblico – che ne ha avuto il possesso - sulla scorta di un loro presunto o reale interesse storico (in mancanza del quale ne andrebbe disposta la distruzione), marca, ad un tempo, l’importanza di quella che solo molto riduttivamente può essere definita una querelle (trattandosi, piuttosto, di un settore ‘vitale’ per la Storia Postale e, più in generale, per tutta la Filatelia), attese le molteplici declinazioni, ed io voglio soffermarmi su quelle penali, di cui è suscettibile la questione.

Sul tema, sono intervenuti, a mio giudizio approfonditamente, pure per i profili di natura civilistica, i Colleghi Laura Solaro e Giuseppe Terrasi, con la conseguenza che toccare, da parte mia, aspetti già sceverati sarebbe un inutile esercizio di natura accademica e non apporterebbe alcun contributo alla eventuale soluzione del problema, che, personalmente, vedo tutt’altro che semplice in punto di diritto.
Per gli aspetti fattuali, penso di poter operare un rinvio agli apporti sino ad ora pubblicati sulle riviste specializzate, non ritenendone utile una sintesi, dal momento che la naturale dialettica che ha suscitato il tema non ha condotto ad approdi omologhi, pur senza che si segnalassero distonie significative e tali da autorizzare il radicarsi di opposte opzioni di pensiero.
Piuttosto, intendo indirizzare il mio focus sul piano delle conseguenze scaturenti dalla ritenuta violazione del precetto legislativo.

Per ragioni di metodo e nel tentativo di concorrere ad accelerare un dibattito che, a mio giudizio, deve vedere le varie componenti del mondo filatelico e storico postale sedere unite al tavolo della discussione – che non potrà che confluire in una proposta di legge, attesa l’inidoneità di ogni diverso strumento, che non sia una legge, a dirimere la questione - intendo partire dall’articolo di Danilo Bogoni, “Caccia alle Streghe”, fresco di pubblicazione e riprodotto da il postalista, che mi ha stimolato alcune considerazioni, gemmate dalla forzata contaminazione dei due settori, fino a poco fa rimasti abbastanza lontani, se non fosse per degli illeciti di cui, episodicamente, alcuni sono stati chiamati a rispondere.

Danilo Bogoni, intervenendo sulla sentenza del 22 febbraio 2017 del Giudice Monocratico di Torino – che molti hanno salutato come una vittoria, ma che io leggo come una ‘vittoria di Pirro’ – con la consueta lucidità, ha focalizzato gli aspetti meritevoli di essere scrutinati, riportando, peraltro, un pragmatico commento di Giulio Filippo Bolaffi e stigmatizzando l’atteggiamento assunto da certi zelanti Soprintendenti, che, ancorati ad una lettura del tutto formalistica della definizione di ‘documento postale’, propugnano una soluzione radicale, ed alla posizione assunta hanno dato seguito con i fatti, ovvero il sequestro delle lettere incriminate.

Dal punto di vista strettamente liturgico, non mi sento di condividere l’ottimismo di Danilo Bogoni, sia perché, se la prescrizione non si matura, al più tardi, con la sentenza di primo grado, il sequestro a suo tempo disposto si trasformerebbe in confisca – questo è il regime applicabile – e la misura verrebbe confermata in appello, anche ove, medio tempore, fosse intervenuta la causa estintiva del reato (sul punto, nel 2015, in conformità alle decisioni della Corte EDU e del Giudice delle leggi, a dirimere il contrasto tra Sezioni ‘semplici’, è intervenuta la Suprema Corte in composizione nomofilattica) sia, segnatamente, perché so, per esperienza professionale, che non sempre tre Giudici, formanti un Collegio, sono più lungimiranti di uno solo.
Il rischio è che la questione arrivi, senza un adeguato impianto argomentativo e motivazionale a sostegno della nostra tesi, in Cassazione e, se negativo, il pronunciamento dei Giudici della Corte Suprema sarebbe destinato a costituire un precedente giurisprudenziale.

E, allora, più che una ricognizione aggiornata e puntuale dell’ermeneusi di legittimità – comunque sempre richiamata nei provvedimenti giurisdizionali, anche per scandire le differenze (fondamentali) tra le fattispecie incriminatrici di ricettazione e di incauto acquisto, la prima, delitto, la seconda, di natura contravvenzionale – che, pure, si risolverebbe, in questa sede ed al contrario di quella penale, ove la vicenda acquista assoluta rilevanza, in una vuota esercitazione di stile, val la pena richiamare l’attenzione su di alcuni aspetti, concludenti rispetto al complessivo tema.

La cd “Riforma Orlando” (dal nome dell’attuale Ministro di Giustizia) – criticatissima dai Penalisti italiani, atteso che, per la sua approvazione, si è prediletto il ricorso alla ‘fiducia’ in luogo di un sano, approfondito, democratico dibattito parlamentare in una materia destinata ad determinare importanti ricadute sul tema dei diritti dei cittadini, con modifiche di diritto sostanziale, processuale ed in materia penitenziaria – ha inciso, tra gli altri, sui tempi della prescrizione, modificandone, significativamente, la disciplina o, sarebbe meglio dire, stravolgendo la fisionomia dell’istituto.
Ragioni di spazio impongono che non ci si soffermi sul delicatissimo aspetto – che, peraltro, richiederebbe competenze specialistiche precluse ai non addetti ai lavori – se non per dire che, per i reati commessi dopo la recente entrata in vigore della Legge, ai colpevoli difficilmente ritornerà utile il trascorrere del tempo.

Questo della prescrizione è, però, un falso problema, recte, che riguarda, appunto, il reo, o presunto tale, considerato che, teoricamente, il reato, purché assistito dall’elemento psichico e nell’ipotesi in cui la sentenza non si fosse pronunciata per la legittimità della provenienza dei beni (circostanza assai difficile, considerate le opposte premesse dalle quali sono partiti i provvedimenti) potrebbe consumarsi, in caso di restituzione all’avente diritto, ogni qual volta avvenisse la cessione del materiale storico postale (la cd. ricettazione da ricettazione, configurabile allorché l’acquirente sia consapevole della provenienza delittuosa).
Come dire, che è possibile, per l’originario possessore, invocare la circostanza di detenere, da decenni o da un secolo (per averli avuti in eredità, donazione e comunque in maniera lecita), documenti appartenuti ad un Ente pubblico e, quindi, opporre la prescrizione del reato di ricettazione, ma, nel momento in cui saranno ceduti, sarà onere dell’acquirente o, anche, di chi li ricevesse a qualsiasi titolo, dimostrarne la propria buona fede, con la discendenza, peraltro non di poco conto, che, in caso contrario, potrà essere disposto, prima, il sequestro preventivo dei documenti e, poi, con la sentenza di primo grado, la confisca, per la restituzione all’Ente cui sono stati sottratti o cui appartenevano.

Dunque, e per entrare in corpore vivi, è opportuno precisare come il reato di ricettazione ex art. 648 del Codice sostanziale, addebitato nei processi che si sono celebrati, punisca la condotta di chi “… al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare …”, sanzionandola “… con una pena edittale da due ad otto anni e con la multa da 516 a 10.329 euro …”.

Per la sua configurabilità è necessario che si ravvisi tanto l’elemento materiale quanto quello psicologico, del dolo, pure nella forma eventuale.
Sotto detto ultimo profilo, la questione non è di poco momento, ove si consideri che la scienza in ordine alla provenienza delittuosa della cosa può desumersi anche dalla qualità delle cose, nonché dagli altri elementi considerati dall’art. 712 del Codice Penale, in tema di incauto acquisto, di cui parlerò più avanti, e sussiste quando i sospetti sulla legittimità della provenienza siano così gravi ed univoci da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza che la cosa ricevuta o acquistata non poteva essere posseduta legittimamente da chi la deteneva od offriva.
Hic sunt leones!
A prescindere dai problemi, tutt’altro che secondari o ininfluenti e ben affrontati da Danilo Bogoni, di conservazione/scarto/distruzione dei documenti ovvero di identità del documento stesso (la busta ne forma parte integrante o rappresenta un mero contenitore?) che postulerebbero una partita trattazione, ciò che è indispensabile sottolineare è come l’esistenza della circolare del Ministro dei beni e delle attività culturali dell’11 ottobre 2011, se utile a sciogliere dei dubbi, dal punto di vista strettamente giuridico non rappresenti un atto normativo (né tanto meno sia ad esso assimilabile) e, pertanto, risulti priva del potere di innovare l'Ordinamento giuridico. L'affermazione è pienamente in linea con gli incontestabili arresti dottrinari rispetto alla gerarchia delle fonti, laddove si legge che col termine ‘circolare’, più che designare un particolare tipo di atto, dalle funzioni o dal contenuto tipizzato, si individua una modalità di comunicazione di qualcosa; il termine designa, per l'appunto, il percorso di un certo atto che si diffonde ‘circolarmente" all'interno di una determinata struttura. Certo è che, a mano a mano che la disciplina di singoli e specifici atti si è rivolta a individuarne anche le modalità di esternazione e le forme di alcuni atti sono diventate ‘tipiche’, come nel caso dei regolamenti, la portata del termine ‘circolare’ si è andata sempre più restringendo, fino al punto di identificarsi con quelli che oggi comunemente così chiamiamo, ossia gli atti emanati dall'Amministrazione, rivolti agli uffici, il cui contenuto può essere estremamente diversificato. Le circolari, come noto, possono contenere semplici comunicazioni, ovvero precise direttive o istruzioni in ordine alle modalità di comportamento che i destinatari devono adottare o, ancora, l'interpretazione che l'organo emanante dà di un certa norma di legge.

Resta, allora, inteso che l'interpretazione contenuta in una circolare altro non è se non il presupposto per individuare le concrete regole di comportamento cui i destinatari, interni all'Amministrazione, devono attenersi; si tratta cioè di un'attività strumentale all'obiettivo di indirizzare, in modo univoco, i comportamenti degli uffici su tutto il territorio nazionale.

Tale conclusione appare scontata, sia se si analizza la distribuzione, a livello costituzionale, dei diversi poteri dello Stato sia, ancora di più, se ci si domanda quale sia il potere posto a fondamento della emanazione della circolare.

La dottrina più tradizionale, condivisibilmente, ritiene che alla base del potere di emanare circolari sia individuabile il cosiddetto potere gerarchico o di indirizzo che alcuni organi possono esercitare nei confronti di altre strutture (normalmente interne e comunque sott'ordinate); tale potere, pertanto, potrà esplicare i suoi effetti solo nei confronti dei soggetti, ovvero degli uffici, che a tale potere soggiacciono.

Operata questa, non breve, digressione, destinata a spiegare effetti sul piano giuridico (nessuna circolare impedirà ad un Pubblico Ministero di avviare l’azione penale e, meno che mai, ad un Giudice di adottare una sentenza di condanna), si impone di ritornare al tema in esame.

Non una vera e propria editio minor del delitto di ricettazione (lo è quella, di particolare tenuità, disciplinata dal capoverso del medesimo art. 648) è la contravvenzione normata dall’art. 712 dello stesso codice, il cui testo così recita “… Chiunque, senza averne prima accertata la legittima provenienza, acquista o riceve a qualsiasi titolo cose, che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per la entità del prezzo, si abbia motivo di sospettare che provengano da reato, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda non inferiore a 10 euro. Alla stessa pena soggiace chi si adopera per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcune delle cose suindicate, senza averne prima accertato la legittima provenienza …”.

Per questa ipotesi – che la Dottrina considera a condotta mista, omissiva prima, consistendo l’omissione nel mancato accertamento della legittima provenienza del bene, ed attiva poi, concretandosi l’azione nell’acquisto, nella ricezione o nell’intromissione ai fini di acquisto e/o ricezione - è, invece, sufficiente, la ravvisabilità, oltre che dell’elemento oggettivo, della colpa, tanto che, da alcuni, si è adombrata la possibilità di delineare una sorta di ricettazione colposa.

Il tema, a questo punto, potrebbe dilatarsi a dismisura, perché, se, correttamente, Danilo Bogoni ritiene la sentenza del Tribunale di Torino figlia del Decreto Legislativo 42/2004, sarebbe agevole rilevare come, prima di diffondersi sul tema della responsabilità, sarebbe imprescindibile che si individuasse la ‘culturalità’ del bene (con più di cinquanta anni), il preciso oggetto della tutela statale, l’inalienabilità del documento (chi desiderasse approfondire compiutamente l’argomento potrebbe consultare il bel testo, ancorché datato, di Roberto Dante Cogliandro “I Beni di interesse culturale. Problematiche e prospettive”, con prefazione del prof. Giuseppe Tesauro) e quant’altro.

Questa citazione mi offre la possibilità di precisare come la Legge italiana più importante in materia di tutela del patrimonio culturale, antecedente all’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, sia stata la n° 1089 dell’1/6/1939.
Erano soggette alla Legge del ’39, secondo quanto disponeva l’art. 1 “… le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi: a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose di interesse numismatico; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi il carattere di rarità e di pregio …”.
Sulla stessa linea, si sono, poi, collocati, nel corso del tempo, il Testo Unico dei beni culturali e del paesaggio ed il Codice dei beni culturali e dell’ambiente (appunto il D. Lgs. 42/2004).

Indubbiamente, l’ampiezza della previsione legislativa era, ed è, tale che non risulta difficile far rientrare, senza un particolare sforzo esegetico, i documenti in esame nei “beni culturali inalienabili”, anche perché alla 1089/1939, proprio per essere organicamente ben concepita, andava riconosciuto il merito di avere, nel corso della sua esistenza, raggiunto l’obbiettivo di proteggere il patrimonio italiano e, una volta tanto, il Legislatore ha ritenuto di non discostarsi da quei contenuti, tentandone, solo, un aggiornamento.

Appare, allora, chiaro come non possa esservi dubbio sul fatto che il patrimonio culturale del nostro paese sia sempre stato oggetto di attenzione da parte del Legislatore stesso, un’attenzione giustamente finalizzata ad assicurare, nella maniera più ampia possibile, la conservazione del patrimonio.

Poste tali indiscutibili coordinate, che alcuno intende revocare in dubbio, torna d’attualità l’iniziale quesito, ovvero se un qualche bilanciamento di interessi, beninteso esclusivamente per il tema in scrutinio, sia possibile e quale ne sia lo strumento.

Al secondo interrogativo, l’unica risposta concretamente praticabile muove da una considerazione sistemica, interna al nostro Ordinamento.
In due parole, occorre una Legge che disciplini la materia.
Quanto al primo, la maggiore problematicità della questione impone un’accurata riflessione, che non trascuri il vigente quadro normativo.

Se è, in effetti, vero che si debba riconoscere che il reato di impossessamento illecito di beni culturali di cui all'art. 176 del D. Lgs. n. 42 del 2004 non richiede, quando si tratti di beni appartenenti allo Stato, l'accertamento del cosiddetto interesse culturale, né che i medesimi presentino un particolare pregio o siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo, essendo sufficiente che la ‘culturalità’ sia desumibile da caratteristiche oggettive del bene, non di meno non si può sottacere che un’applicazione della norma informata ad un irragionevole automatismo e ad un protezionismo fuori dalla logica prima che dalla realtà, sia destinata a determinare uno scenario gravido di negative conseguenze proprio in tema di tutela del patrimonio storico postale, a poco rilevando il ridotto numero dei provvedimenti ablatori fino ad ora adottati.
Non mancano, e ne sono testimoni coloro i quali hanno ritenuto di intervenire sul tema, le professionalità giuste per porre, ai massimi livelli, un tema così rilevante, da trattare con la acribia necessaria ad evitare che si corra ai ripari quando è ormai troppo tardi, ma, ed è questa la mia conclusione, occorre uno schieramento trasversale che non faccia arenare la questione nelle secche di una sterile ed improduttiva discussione, bensì ne consenta una costante progressione.

Domenico Ducci
8 agosto 2017


pagina iniziale le rubriche storia postale filatelia siti filatelici indice per autori