È di meno di un anno e mezzo fa la polemica scoppiata tra il Presidente della Camera e Giuliano Ferrara, direttore de “Il Foglio”. Quest’ultimo, infatti, ritenne che la Boldrini avesse affermato con troppa leggerezza “Mamma mai più con spot e biscotti e mai più donne accudenti”, cancellando così quella che era stata per secoli una figura fondamentale della civiltà italica, la mater familiae, la casalinga o massaia che dir si voglia. Ferrara richiamava alla memoria dei suoi lettori tutti i meriti di chi, stando in casa, aveva svolto una funzione sociale insostituibile nella cura del benessere della famiglia e nell’educazione dei figli, sostenendo che, anzi, tale figura, pur se in chiave moderna, andava rivalutata, specialmente in un momento di crisi economica, quando una corretta gestione dell’economia domestica poteva rivelarsi premiante rispetto ad un aleatorio e insufficiente guadagno esterno e a fronte di spese per la produzione del reddito sempre crescenti.
Il fortuito ritrovamento di una marca erinnofila ha richiamato alla mente l’episodio, considerata la funzione a cui la stessa era destinata: essere applicata sulla tessera di “massaia rurale” per l’anno 1942.
I filatelici, e ancor più i numismatici, sanno che la diarchia re – duce, in essere durante il fascismo, col prevalere della figura istituzionale del primo rispetto al secondo, negò a Mussolini, anche formalmente, l’occupazione degli spazi su monete e francobolli. Persino tra gli erinnofili non sono stati molti quelli su cui appare il busto del duce, mentre mai fu presente su marche fiscali o monete e rarissimamente sui francobolli. Uno degli erinnofili fu certamente questo, stampato peraltro con una tiratura consistente (molto simile fu anche la marca di convalida delle tessere dei fasci femminili) dal Poligrafico, a dimostrazione della stretta simbiosi tra partito e organi dello Stato.
Al di là della funzione, considerata da molti autori subalterna durante il ventennio, il fascismo si occupò dell’universo femminile fin quasi dalla presa del potere. È del 1921, infatti, la creazione ad opera di Elsa Mayer Rizzoli dei fasci femminili presso le sezioni del neonato partito nazionale fascista, con una struttura gerarchica parallela ma subordinata a quella maschile.
La visione fascista dell’universo femminile era piuttosto semplice: la donna era “strutturalmente” diversa dall’uomo e quindi diversi dovevano essere i “destini”. A lei era riservata la cura del focolare e della prole, possibilmente numerosa, doveva “seguire” il marito nei suoi spostamenti lavorativi, doveva essere da lui protetta e curata ma non doveva interferire con le sue decisioni che, anche se prese senza consultarla, dovevano essere accettate senza contraddittorio. La donna non aveva una vita sessuale propria e doveva quindi riversare le sue “emozioni” solo sul marito che, viceversa, poteva disporre della sua sessualità come voleva.
Ovviamente doveva propagandare lo spirito della rivoluzione fascista e a lei erano riservate le opere sociali soprattutto se finalizzate alla maternità e all’infanzia. Era tenuta a seguire i corsi di economia domestica, di istruzione fisica, artistica e culturale. Poteva votare alle elezioni amministrative locali che però non si tennero mai durante il ventennio, ed era tutelata se sceglieva di lavorare, con i congedi per maternità, allattamento, ecc. Per evitare però che si potessero, in caso di crisi, verificare situazioni di disoccupazione del capofamiglia e di contemporanea occupazione della moglie, con svilimento della figura maschile, nel 1938 fu emanata una legge che fissava al 10% il limite di occupabilità femminile rispetto a quella maschile. In sostanza il fascismo riteneva che la famiglia nascesse per decisione dell’uomo e che uno stravolgimento di tale assioma avrebbe comportato una disoccupazione cumulativa insostenibile, un crollo dei matrimoni e delle nascite, un disordine sessuale con la perdita da parte dell’uomo della sicurezza in se stesso e, in sostanza, uno scompenso sociale.
Fu seguendo questa filosofia, e per meglio inquadrarne la figura, che le coadiuvanti dell’agricoltura, le massaie rurali, che già facevano parte della confederazione nazionale sindacati fascisti dell’agricoltura, passarono nel 1934 alle dirette dipendenze dei fasci femminili, costituendone una speciale sezione. Delle “massaie rurali” potevano far parte le donne di campagna al compimento del 21° anno o, se sposate, a qualunque età, che appartenessero a famiglie di proprietari coltivatori diretti, di affittuari, coloni, mezzadri e operai agricoli. Esse erano inquadrate in “Sezioni massaie rurali” rette da una segretaria che dipendeva da quella di sezione del fascio femminile. La segretaria doveva promuovere la propaganda fascista nelle campagne, favorire l’allevamento igienico della prole specie se numerosa, propagandare la sana vita dei campi per contrastare le tendenze all’urbanesimo, migliorare l’arredamento e l’igiene delle case di campagna, promuovere l’istruzione professionale delle massaie migliorando le loro conoscenze nella coltivazione degli orti, nell’allevamento degli animali da cortile e nell’artigianato casalingo, incrementare, a fini autarchici, gli stessi allevamenti, la raccolta e il collocamento dei prodotti dell’artigianato. Doveva inoltre condurre la lotta contro gli sprechi, fornire mangimi, materiali, sementi e attrezzi, facilitare la distribuzione di eventuali provvidenze che fossero di vantaggio alle stesse massaie. Le spese per tali attività dovevano essere sostenute dalle entrate del tesseramento e dai contributi di enti e di organizzazioni agricole.
Le iscritte alla Sezione ricevevano una speciale tessera, un distintivo metallico da portare sul bavero dei vestiti e un fazzoletto da indossare al collo nelle adunate, sul costume locale. Nell’ultimo degli 8 anni di attività, le massaie rurali superarono il mezzo milione, poco rispetto al numero reale delle stesse come pure ridotto era il numero delle iscritte ai fasci femminili, poco più di tre milioni. Evidentemente il costo annuale della tessera, la resistenza delle stesse interessate, la scarsa diffusione dell’iniziativa nelle aree più interne e meno alfabetizzate del paese, costituirono una remora insormontabile.
(Nelle immagini: la marca per l’anno 1942, XX dell’era fascista, per la tessera di massaia rurale; la stessa applicata ad un documento sostitutivo della tessera; una tessera del fascio femminile con due marche relative, una al 1942, molto simile a quella per la tessera di massaia rurale, l’altra al 1943, in verde; il distintivo di massaia rurale; il fazzoletto da indossare durante le cerimonie in costume. Fonte: Internet)
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