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Note sulla spedizione dei Mille - I | ||||||
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di Giuseppe Marchese e Edoardo P. Ohnmeiss | ||||||
Eccoli i mille che si imbarcano, la sera del 5 maggio sui piroscafi Piemonte e Lombardo, di proprietà della società Rubattino, male armati e peggio equipaggiati per tentare di “fare l’Italia”. Impossibile non pensare alle difficoltà. Un migliaio di persone eterogenee, quasi tutti senza esperienza di guerra, si accingono a partire “alla garibaldina” per una impresa che tra l’altro era osteggiata dal Governo e soprattutto del conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna. Per quanto era possibile la spedizione è stata preparata con cura. Garibaldi, memore del fallimento dei fratelli Bandiera nel 1844 e di Carlo Pisacane nel 1857, aveva chiesto un segnale agli esuli democratici siciliani. L’incoraggiamento venne il 4 aprile 1860, quando Francesco Riso, con un pugno di uomini, dette il segnale della rivolta in atto alla Gancia di Palermo. Ed ecco i mille in mare. Inutile narrare le difficoltà e delle peripezie dei novelli “briganti” calati al sud per fomentare l’insurrezione della Sicilia, come affermavano i borbonici. Ma la Sicilia era di tutt’altro avviso. Il 1860 era l’atto culminante di conflitto tra re e reame che aveva avuto un inizio nel 1820, poi con un seguito nel 1837, rifinito nel 1848, completato in quell’anno 1860. Garibaldi è stato soltanto il braccio armato - e che braccio! – nel quale si incanalavano le aspettative dei siciliani. Ed ecco che le gesta dei mille, di Garibaldi, si fondono con la gesta dei “picciotti” che subito dopo lo sbarco si unirono a questi. Subito dopo l’arrivo i malconci Mille ebbero la prima sensazione del comportamento della popolazione: 12 maggio verso Salemi “Lungo le valli che passammo, si assembravano i contadini battendo le mani e gridando: Viva la ‘talia; dall’espressione dei loro volti appariva la gioia di vederci… Eravamo entrati in Salemi e una folla immensa di popolo che dai punti più culminanti aveva collo sguardo seguito i nostri passi, si accalcò intorno a noi; vi fu un ricambio di cortesie e di amplessi. La musica coi suoi concerti salutò la nostra venuta, e le campane suonarono l’allegrezza.”(1) Il 15 maggio, alla battaglia di Calatafimi, erano già presenti in prima fila le squadre dei siciliani che aprirono le ostilità con l’inviso esercito borbonico. Annota Garibaldi nelle sue memorie: “Il nemico, credendo d’aver a che fare forse colle sole squadre (composte da Siciliani), essendo i mille al coperto, inviò baldanzoso alcune catene di tiratori con adeguati sostegni e due mezzi da montagna… E subito dunque, si toccò a carica generale e l’intiero corpo dei Mille, accompagnato da alcuni coraggiosi delle squadre, mosse a passo celere alla riscossa”(2) A maggior riprova ecco un riepilogo dell’accaduto alla battaglia di Calatafimi scritte da Giuseppe Capuzzi a pagina 53 del suo volume “Non distavamo un miglio da Vita che il nostro corpo fece sosta… Le bande armate intanto continuavano a capitare e passavano oltre… Al vedere la folla di persone che accorreva, pensavamo un tratto che forse l’opera nostra riusciva inutile, essendo le squadre abbastanza forti e numerose da pugnare da se stesse l’inimico…” Anche il generale Garibaldi concorda che vi fu un entusiasmo collettivo “Le genti della Trinacria, fratanto, accorrevano ad ingrossar le file dei Mille. Alcamo accoglieva i vincitori con tanto entusiasmo di cui sono capaci quei fervidi Meridionali. Partitico fece di più: vedendo i nemici, che sì crudeli erano stati cogli abitanti, ora sbandati e fuggenti, quella popolazione diede loro addosso e sino le donne trucidarono di quei disgraziati.” (3) La spedizione continua la sua marcia verso Palermo sempre con le difficoltà del terreno e di un esercito ostile che cercava di bloccare l’accesso alla città. Per evitare l’ostacolo Garibaldi, col grosso delle truppe, prosegue per Piana degli Albanesi, raggiunge Gibilrossa e attacca Palermo da sud-est. Di questa abile manovra il generale dice: “Ma la colonna principale dei mille… giunse a Gibilrossa, ove il generale La Masa aveva riunito buon nerbo di squadre siciliane, e di là tutti riuniti si attuò la famosa marcia di notte, per sentieri asprissimi, sulla capitale dei Vespri, presidiata tuttora da quindici mila soldati delle migliori truppe dell’esercito borbonico.” (4) Mentre Giuseppe Capuzzi annota: “Si avvicinava la notte quando noi partimmo; eravamo divisi in due colonne, la prima percorreva il monte, l’altra percorreva il sentiero ch’è alle sue falde. Tutti però ci riunimmo al convento di Gibilrossa. La trovammo le bande armate che seco noi dovevano entrare in Palermo. Dagli sguardi, dai movimenti, appariva l’orgoglio di quella gente desiderosa di prendere parte coi Cacciatori delle Alpi al cimento della pugna.” (5) (1) Giuseppe Capuzzi, La spedizione di Garibaldi in Sicilia - memorie di un volontario, pagina 44, Antares Editrice, Palermo 2003.
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