Possiamo definirle vite parallele, quelle dei due grandi compositori Domenico Cimarosa, e Giovanni Paisiello entrambi provenienti dalla storica Scuola Musicale Napoletana, che all'epoca poteva vantare insegnanti del calibro di Francesco Durante e Domenico Scarlatti, dai quali si formarono
alcuni fra i più rilevanti compositori del '700.
Cimarosa nasceva nel 1749, nove anni dopo Paisiello, mentre la morte lo colse da esiliato a Venezia nel 1801, il suo collega-rivale sarebbe morto quindici anni dopo, cioè nel 1816. I due, furono figure centrali di quell'ambiente musicale nato durante il periodo storico del!' Età dei Lumi e rivoluzionario per antonomasia, che provocherà grandi trasformazioni nella vita e nelle idee degli uomini. La loro produzione musicale era molto simile, con prevalenza di repertorio operistico del genere buffo, caratteristica saliente che la stessa Scuola Napoletana fece nascere proprio nel tardo '700.
Ebbero entrambi grandi soddisfazioni per i successi conseguiti durante i loro soggiorni a San Pietroburgo presso la Corte della zarina Caterina II. Infine, tutti e due agirono con doppiezza nei confronti di una Corte borbonica che per loro fu sempre generosa e prodiga di riconoscimenti e di varie committenze, molte delle quali, però, regolarmente disattese. Solo il carattere fra i due era molto diverso. Paisiello si differenziava da Cimarosa (più mite), per il marcato sentimento rancoroso durato l'intera vita, dovuto alla gelosia e invidia nei confronti dei colleghi come: Alessandro Guglielmi e Niccolò Piccinni, ma soprattutto, ce l'aveva con "quell'antipatico" di Cimarosa.
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Comunque, dal punto di vista artistico, furono capaci di soddisfare sia le plurime esigenze del gusto privato, sia la domanda di musica liturgica e di musica per le cerimonie di circostanza che veniva richiesta dalle varie Corti. Ora, dilungarsi sulle vastissime produzioni musicali di entrambi, comporterebbe l'esamina di un elenco "chilometrico"; limitiamoci agli episodi riguardanti due delle loro più importanti composizioni innografiche. Iniziando da Paisiello.
Nel 1787, un paio d'anni prima che scoppiasse la Rivoluzione francese e l'evento del ciclone Napoleone, sappiamo che l'Italia era un mosaico fra Regni, Ducati, Granducati ecc. e proprio in quell'anno, re Ferdinando IV di Napoli, III di Sicilia e I del Regno delle Due Sicilie (1816), commissionò a Giovanni Paisiello un inno, del quale venne dato il titolo di "Viva Ferdinando il Re", che entrò subito in vigore, diventando così il primo "inno nazionale" nel territorio italiano. Va considerato il fatto che all'epoca gli inni, marce reali o imperiali si identificavano con la persona del sovrano. Non si hanno molte notizie per quanto riguarda il testo, che alcuni attribuiscono allo stesso Paisiello, mentre per altri si vuole sia stato scritto (o modificato) nel 1816, in occasione della creazione del Regno delle Due Sicilie, assieme all'adozione ufficiale dell'inno stesso. La cosa strana è che, nonostante Paisiello non fosse stato un "fedelissimo cortigiano" dei Borboni, bensì un voltagabbana in favore di Napoleone, il suo inno non venne mai sostituito fino al 1861, con la scomparsa del Regno. Infatti, facendo un passo indietro, cioè nel 1785, dopo i sette anni trascorsi in Russia presso la Corte di Caterina II, al rientro a Napoli, Paisiello riprese ancora i suoi buoni rapporti con la Corte borbonica, almeno fino al 1799, quando si instaurò la Repubblica Napoletana. Questo fatto costrinse re Ferdinando e la sua Corte a rifugiarsi a Palermo e Paisello, con buona dose di sfrontatezza, non seguì il suo re, ma accettò la nomina di maestro di cappella dai nuovi governanti. E fu il primo sgarbo.
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Al ritorno a Napoli di re Ferdinando, Paisiello passò dei brutti quarti d'ora, finì sotto inchiesta e venne "depurato" per due anni. Nel 1802, Napoleone (che stravedeva per lui), lo invitò a recarsi a Parigi in occasione della sua auto-incoronazione e per la quale scrisse una "Messa solenne" e un "Te Deum". L'esperienza parigina durò poco più di un anno, Étienne Méhul e Luigi Cherubini, con i quali non voleva condividerne gli onori. Scrisse un'ulteriore opera per Napoleone, ma l'ambiente parigino l'accolse negativamente e quel che è peggio, gli divenne ostile tanto che, nel 1803, amaramente rientrò a Napoli dove si sarebbe consumato il suo lento ed inevitabile declino. Per il rivale Domenico Cimarosa, "musicista a tutto tondo": strumentista (suonava più strumenti), talentuoso cantante e, naturalmente, sommo compositore (allievo per il contrappunto di Fedele Fenaroli), va considerata anche la
positiva forma di carattere decisamente affabile. Dopo i i successi presso la Corte di Caterina Il, ove si recò nel 1787, fu poi la volta di Varsavia, Vienna e la Toscana, sempre carico di onori e lodi nei suoi confronti, che continuarono anche dopo il rientro nella sua Napoli nel 1793, con le nuove e vecchie opere continuamente rappresentate con grande successo. Ma per quei successi non ebbe mai pace: ben presto dovette constatare con grande amarezza la cattiveria dovuta alla rivalità, gli intrighi, le invidie, dove figurava quasi sempre il nome del suo eterno rivale, Paisiello.
E anche per Cimarosa arrivò il fatidico 1799, anno dell'evento della Repubblica Napoletana (durato, peraltro, il breve tempo da gennaio a giugno), alla quale aderì contribuendo con quel famoso inno patriottico, "Bell'Italia". In un testo stampato (fogli
volanti del 1799) si legge: < Inno patriottico del cittadino Luigi Rossi per lo bruciamento delle immagini de' tiranni. Posto in musica dal cittadino Cimmarosa, da cantarsi nella festa de' 30 fiorile sotto l'albero della libertà avanti il Palazzo Nazionale >.
La· gioia degli insorti però, finì defitivamente al rientro del Re, che assieme alla sua Corte iniziò i processi, le condanne e le esecuzioni per i rivoltosi. A questo punto, il Cimarosa commise un grosso errore dovuto, si dice, alla paura. Vistosi a mal partito si affrettò a musicare un inno in onore al Re per il suo rientro, peggiorando così la sua situazione. Infatti ritenuto senz'altro un'ulteriore provocazione nei suoi confronti, il Re lo imprigionò e lo condannò a morte. La pena poi, grazie all'intervento di influenti amici russi, grandi estimatori dal tempo della sua trasferta in Russia, venne commutata in esilio. Viceversa, per il poeta, giacobino e massone Luigi Rossi autore del testo, non c'è stato niente da fare: fu impiccato il 28 novembre dello stesso anno. Cimarosa, lo seguì dopo soli 14 mesi, ma dal suo letto di morte in quel di Venezia, senza poter portare a termine la sua promessa di ritorno a San Pietroburgo, come sarebbe stato nelle sue intenzioni.
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