Storia Postale
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L'epidemia di colera del 1837 |
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di Giuseppe MARCHESE (Numero unico Peloro Messina 2003) | |||||||||||||||
La Sicilia del XIX secolo due cose temeva più di tutto: la carestia e le pestilenze. Sulle pestilenze, chiamate comunemente “mal contagioso”, si ricorreva alla prevenzione come “per provvedere alla nettezza delle strade, e delle abitazioni, non che alla salubrità dell’aria, ove fosse alterata da acque stagnanti, o putridi accumulamenti, procurando lo allontanamento di ogni causa produttrice di aria malsana”. (1) Le cure in periodo di contagio erano demandate alla quarantena e all’isolamento in lazzaretti stabili o provvisori che erano istituiti, i primi, presso le Deputazioni di Sanità e nei comuni dove era in corso la malattia. Cure mediche vere e proprie non ve ne erano. Palliativi molti, specie per quelle persone che erano a diretto contatto con i malati, come i medici. Infatti come prima cosa “…questo Magistrato Supremo di salute ha dichiarato, che debbano ciascun di essi portare una boccetta di Cloruro di Calce sciolto in acqua, o di olio, e debba ungersene le dita prima, e dopo di tastare il polso.” (2) (Figura 1).
Per i malati si tentava la cabala di curare con unguenti vari la malattia, con risultati scarsi o scarsissimi. Da una istruzione a stampa del 1836 si ha un’idea dei medicinali proposti: Aceto di Morfina; aceto di quattro ladri; aceto canforato; ammoniaca liquida, castoro vero di Russia, cloruro di calce, estratto acqueo di oppio; empiastro vescicatorio; etere sulfarico; gomma arabica; laudano liquido; mercurio dolce; olio essenziale di rosmarina; olio di menta; oppio puro; seme di lino, e di senapa. (3) (Figura 2)
Tuttavia l’uomo di allora cercava una causa a questo flagello che poteva decimare una città o una intera regione. Poiché la scienza medica di allora non aveva individuato la malattie, il popolo, la gente, cercava una spiegazione dirigendosi, è ovvio, verso la fede o l’occulto. La ricerca di una causa plausibile dell’epidemia prese diverse strade: a) punizione di un Dio sdegnato da orribili peccati che naturalmente ogni giorno in ogni città si commettevano; Nel 1837 a queste due vie se ne aggiunse un’altra: Il contagio era opera di agenti governativi che su incarico del Governo commettevano questo crimine. Certo le popolazioni che si decidevano su questa origine del male non erano molto ben disposti verso il Governo identificato con il loro re. Caso non strano questo indirizzo di propagò in Sicilia nel 1837 e, malgrado le difficoltà di comunicazioni tra città e città mise a ferro e fuoco prima Siracusa, poi Catania e infine altre sollevazioni, seppure più limitate a Palermo e il suo interland. Nel giugno del 1837 il colera morbus raggiunse la Sicilia. Probabilmente vi erano stati dei focolai già nel 1836. La malattia non lasciò indenne nessuna grande città e colpì molte di quelle piccole. A Palermo le prime notizie del contagio sono del 22 Giugno. Il 10 luglio il colera è nel pieno del suo sviluppo.
Il Cordone sanitario Nell’ottobre del 1836 il Magistrato Supremo di Salute di Palermo rende pubbliche le decisioni governative circa il cordone sanitario, premettendo “Essendo stati attaccati diversi punti dell’altra parte dei Reali Dominj dal Colera Morbus, il Magistrato Supremo di Salute per difendere la Sicilia dall’invasione di un sì micidiale flagello……” Come prima cosa 60 legni di vario genere pattugliano il mare per il controllo delle navi provenienti da luoghi attaccati dal colera. Inoltre viene “stabilito un cordone terrestre da Milazzo a Siracusa organizzato militarmente”. E infine le coste della Sicilia vengono presidiate da “guardie prezzolate, sorvegliate, e dirette dagl’Impiegati, Civili e Possidenti”. (4) Le navi che effettuavano il cordone marittimo avevano il compito: “4° Se i legni di crociera si dovranno allontanare dalle proprie stazioni per inseguire qualche bastimento sospetto, o per altro oggetto di servizio, ne avviseranno ugualmente con segnali i posti del cordone terrestre più vicini, acciò sapendo, che resta sguarnito quel punto della crociera marittima, usassero ogni possibile vigilanza pella custodia del littorale.” (5) Sul cordone terrestre abbiamo un riscontro di parziale conferma: “Sviluppatosi il Cholera in Siracusa a preservare questa Valle (Messina) fu apposto un cordone terrestre ai confini che dividono questa dal Valle di Catania. E fu istallato un lazzaretto al di qua del fiume Alcantara, …Messina 31.10.1837” (6) Ma oltre a questi cordoni sanitari generali, le norme sanitarie stabilivano: “Appena dichiarato che in un punto dell’Isola si manifesti il Colera, è vietato a chicchesia il vagare oltre i limiti del proprio Comune, senza sanitaria bolletta. I controventori saranno arrestati, e posti in contumacia a disposizione del Supremo Magistrato di Salute”. Sul modo di accertare la presenza del colera vi era in uso un meccanismo che iniziava con l’accertamento del caso o dei casi da parte di un medico. Se vi era sospetto si riuniva una Commissione sanitaria e se anche questa concordava sulla presenza del contagio mandava rapporto scritto all’Intendente e al Supremo Magistrato di Salute. Dopo di che la zona o il paese veniva isolato e per uscire occorreva una “bolletta” a firma del sindaco che “indicheranno il nome e la filiazione della persona, la buona salute della medesima, e quella della Comune d’onde parte. Indicheranno altresì che da venti giorni antecedenti non fu mai affetto da alcun male contagioso, o sospetto, e non viaggiò per luoghi infetti, o sospetti.” Sulla rigidità delle norme sul valico dei cordoni sanitari non vi sono dubbi. Sulla chiusura dei singoli paesi è istruttiva la seguente lettera spedita dal Senato di Cefalù alla Commissione Sanitaria di Alimena. “Cefalù 4 luglio 1837 / Signori / Dal di loro rapporto del 3 corrente di N. 7 intendo il dettaglio fatto del caso avvenuto ad un individuo naturale di codesta nel ritornare dal Comune di Morreale, ove in compagnia di un altro era andato per portare in codesta il Chierico D. Gaetano Messina naturale di costà per cui, essendo impedito di proseguire il viaggio poco distante da costì per manifesto valido timore di sviluppo di Colera essendo tornati soli due non avendo stimato di ammetterli hanno opinato le SS. LL. inviare i suddetti individui scortati con un uomo a cavallo per custodia sanitaria in questo Comune capoluogo di Distretto nella supposizione d’essere attivato il Lazzaretto di consumare la contumacia ordinato con circolare del 26 giugno scorso. Io le son d’avviso che il locale surriferito di consumar la contumacia nel limite del Distretto non è stato ancora attivato, pendente l’analogo rapporto d’aspettarsene le corrispondenti superiori disposizioni. Mi è quindi necessità rinviare i suddetti Individui in codesto Comune loro patria, dovendo espiare la contumacia prescritta nel proprio Comune nell’essere ivi arrivati in un particolare prescelto apposito locale e pell’accerto della pubblica salute, non diversamente che trovasi praticato nel Comune di Castelbuono, e altri Comuni pella comune salvezza e saranno quindi praticar lo stesso come in proposito ho io praticato per i molti individui naturali di questa, e con tale intelligenza, nel rinviare costì i predetti individui facendoli portare nell’estensione del mio territorio, mi auguro che sarà di tutto bene eseguito al ritorno in codesta dè medesimi. Il Sindaco”. Nella contesa tra burocrazia e norme sanitarie vince la prima, in barba ad ogni cautela.
Effetti della pestilenza L’isolamento imposto dalla contumacia sugli uomini e sulle merci aveva dei risvolti negativi su coloro che vivevano del proprio lavoro, a volte per carenza della materie prime che non arrivavano. L’intendente di Palermo fa sapere a tutti i comuni della Valle “..di essere faticato il vestiario…per occorrere alla miseria dei sarti, e dei calzolai”. In pratica le merci da Napoli dovevano sostare in contumacia per giorni 21 “per le merci suscettibili” e mancando le materie prime non si poteva lavorare e, di conseguenza mangiare. Vi erano dei correttivi, ora si direbbero “ammortizzatori sociali”, che permettevano a chi non aveva niente di approvvigionarsi del necessario. In ogni comune vi era una “Delegazione del Governo per le vettovaglie”. Tuttavia a lungo andare la situazione peggiorava a tal punto che “malgrado qualche malo umore sparso talora da particolari, ogni paese può trovarsi nella stessa infelice posizione…. Prosiegue dunque a far del bene comandato dal signore Iddio, attivi il commercio di cotesti abitanti con tutte le precauzioni sanitarie per non perire gli stessi di fame, mentre scampano il Colera….” (7)
Eccessi della pestilenza L’origine ignota del male, l’isolamento totale, la virulenza della malattia, l’alternativa della morte per fame erano formidabili motivi per scatenare l’odio e la follia collettiva. Dice Andrea W. D’Agostino nel bel volume “Contagio”. “Insieme alle pestilenze, altri flagelli erano interpretati come manifestazione dello sdegno divino….. E ancora: “Nella storia le epidemie hanno inoltre provocato contraccolpi culturali e sociali, con il diffondersi di superstizioni e le conseguenti persecuzioni contro coloro che venivano accusati di essere diffusori volontari del male: per esempio, gli ebrei nel Medioevo; gli "untori" della peste nell'età moderna; le stesse autorità pubbliche, come nel caso del colera nell'Italia del sec. XIX, che comportò anche moti popolari.” “Purtroppo gli untori non erano visti soltanto entro le mura di Milano, ma anche nelle sue campagne, e anche a Padova. La confisca dei beni, le torture, la pena di morte comminate a questi sventurati erano dunque considerate un deterrente. A Bologna…”….intanto essendosi scoperto in molte parti della città, e Contado, che le porte delle case, catenacci, cantonate delle strade, & altri luogi erano onti, per lo che si poteva facilmente temere, stante i mali contagiosi, che correvano, dette ontioni di esser fatte da persone empie….” Ecco, appunto, persone empie. Era facile scatenarsi contro “peccatori” nel caso che si identificasse in un Dio incollerito la causa dell’epidemia, o di persone “empie” di altra religione, nel caso che il contagio, nella psicosi collettiva, fosse opera di “untori”. A questo proposito è interessante, per molti versi, il decreto del 6 agosto 1837 a firma di Ferdinando II che nell’articolo primo enuncia: “Lo spargimento di sostanze velenose, ovvero le vociferazioni che si sparga veleno….” Anche il re del regno delle Due Sicilie sospetta l’opera di untori… In Sicilia si assiste a una variante fin’ora inedita. Gli untori sono agenti governativi che spargono il veleno per motivi sconosciuti. La città di Siracusa si gioca così nel Luglio 1837 la sua posizione di città capo valle e proietta questa idea a Catania, a Palermo, dappertutto. La direzione di polizia di Palermo è costretta a emettere un manifesto, in data 24 luglio 1837 che dice: “L’invasione del colera disgraziatamente verificatasi prima in questa Capitale, e successivamente in alcuni altri comuni dell’Isola, come ancora il timore di potere il male assalire gli altri paesi che tuttavia ne sono esenti, ha fatto sorgere una calunniosa e maligna voce, che il morbo lungi d’essere l’effetto di una naturale calamità, che ha da più anni afflitto non poche nazioni, sia piuttosto l’opera di un veleno, che scioccamente dicesi sparso né diversi generi di vitto.” Sia il manifesto di Palermo sia il decreto di Ferdinando II non dicono che sono agenti del Governo coloro che mettono il veleno nei “diversi generi di vitto”. Accadde quindi che il 16 luglio 1837, in Siracusa, tali Mario Adorno, Carmelo Adorno, Concetto Lanza, Padre Vincenzo Zucco e Andrea Carpaci e numerosi altri cominciarono a protestare contro gli “untori” nella persona dell’Intendente e di altre cariche cittadine. La mattina del 18 luglio inizia la sommossa generale. Sono uccisi il commissario Vico, altri quattro cittadini forse presi a caso, l’intendente Vaccaro e l’ispettore Greci con suo figlio. Il 21 luglio esce un proclama a nome dei siracusani ai fratelli siciliani e li spingeva alla difesa della salute pubblica e alla defenestrazione del re. Sono formate delle squadre di salute pubblica e fino al 7 agosto la città vive il doppio timore del colera e della rivoluzione. La sollevazione popolare venne stroncata quasi subito. La Commissione Militare del Vallo di Noto in data 28 agosto 1837 giudica Pasquale Argento, Pasquale Campisi, Felice Liberto ed Emmanuele Miceli colpevoli di voci sedizione, ribellioni, di omicidi e stragi e li condanna alla pena di morte mediante fucilazione. Altri imputati minori sono condannati a pene detentive. A Catania l’epidemia non era ancora arrivata il 18 luglio, sebbene le voci di casi sospetti a Siracusa circolavano per la città. Lo stesso giorno cominciarono i tumulti e nei giorni seguenti arrivarono diverse persone da Siracusa che portavano notizia dei disordini. Il 24 luglio apparve il manifesto di Siracusa. Si procedette al disarmo della polizia e degli altri corpi militari e vennero create delle squadre di sicurezza. La situazione si evolve rapidamente con un gruppo di persone ritenute liberali e repubblicane, assieme a elementi della nobiltà cittadina. Il movimento intende liberarsi di Ferdinando II e di ripristinare il regno di Sicilia. Sono a capo del movimento indipendista: Francesco Paternò Castello, di anni 51, duca di Carcaci, presidente della Giunta di Pubblica Sicurezza; Salvatore Barbagallo di anni 33, professore di belle lettere, Segretario della Giunta di Pubblica Sicurezza; Antonino Paternò Castello, di anni 58, della casata dei marchesi di San Giuliano, 1° membro della Giunta di Pubblica Sicurezza; Giuseppe Gaudullo Guerrera, di anni 23, negoziante, Gaetano Mazzaglia, di anni 22, forense; Luigi Condorelli Perina, di anni 32, maestro di lingua francese; Santo Sgroi, di anni 23, forense; Giuseppe Calandone, di anni 37, calzolaio; Angelo Ardizzone, proprietario; Le “malefatte” di quei “rivoluzionari …e della plebaglia che li seguiva” si riassumono nei processi che di li a poco seguirono: riproduzione del sedizioso e rivoluzionario manifesto proveniente da Siracusa; innalzamento di un vessillo giallo proclamando l’indipendenza per le pubbliche strade; arresto arbitrario dell’Intendente e di altre persone; lettura pubblica e ad alta voce del manifesto rivoluzionario prodotto a Catania il 30 luglio 1837; disarmo della polizia e distribuzione di armi ai rivoltosi; abbattimento della statua di marmo di S.M. Francesco I. Erano rappresentati tutte le parti sociali della vita di allora: mestieri, borghesia, cultura, nobiltà. L’epilogo è tragico per tutti, esclusi i rappresentanti della nobiltà. Salvatore Barbagallo Pittà, Giuseppe Gaudullo Guerriera e Gaetano Mazzaglia sono condannati a morte mediante fucilazione; gli altri subiscono condanne dall’ergastolo a 25 anni di ferri. La decisione della Commissione Militare del Valle di Catania del 16 settembre 1837. Altre sommosse popolari scoppiarono a Capaci, Termini, Prizzi, Marineo, Corleone, Bagheria, Misilmeri.
Il Trasporto della Corrispondenza In periodo di pestilenza e di cordoni sanitari marittimi e terrestri la corrispondenza veniva inoltrata regolarmente e i Corrieri avevano il permesso di valicare i cordoni. L’eccezione di poter valicare il cordone imponeva che il “Parte” cioè il lasciapassare dichiarasse che il luogo di provenienza era libero di “mal contagioso”. Inoltre “la mercanzia” che si portava, cioè le lettere, erano sottoposte a disinfezione. (8)
La disinfezione delle lettere Normalmente le lettere venivano disinfettate nei lazzaretti esistenti nei porti e nelle città principali. Esistevano lazzaretti nelle deputazioni di Sanità di Trapani, Siracusa, Catania, Messina oltre naturalmente nella Suprema Deputazione di Sanità di Palermo. In casi di epidemie estese le lettere potevano essere trattate in Lazzaretti provvisori o di luoghi di cura, ovvero ospedali di contumacia locali. (Figura 3)
Anche nelle Deputazioni Sanitarie era possibile profumare la corrispondenza, con o senza l’intervento della posta. (9) Il modo di disinfettare le lettere variava da luogo a luogo e nel tempo. In Sicilia per il periodo 1836 – 1854, epoca in cui avvennero due micidiali pestilenze, si era messo in piedi questo metodo: ..la deputazione di salute di Messina ha fatto conoscere, che aperte le lettere, ed attaccate con uno spillo alla sopracarta, consegnate vengono queste agli ufficiali postali, dai quali nuovamente sono chiuse....che la incumbenza degli ufficiali postali.....è quella di chiudere la corrispondenza che dagli impiegati sanitari lor si consegna in pratica…(10) (Figura 4) (Figura 5)
EPILOGO Terminata l’estate il cholera smise di infierire sulla Sicilia. Le conseguenze di quell’estate tremenda si fecero sentire anche negli anni a venire. Se ne ricordò Ruggero Settimo nel 1848 nel suo violento j’accuse contro la dinastia borbonica nell’affermare che la violenza nel reprimere i tumulti di piazza fu scellerata, non tanto per i modi “polizieschi” nel reprimerla quanto nel togliere i cordoni sanitari e l’autonomia ai Magistrati di Sanità (11) e infine la suprema arroganza di Del Carretto di affermare: “Questa ordinanza contiene quanto all’umana prudenza è dato scorgere, per guardarsi dal morbo, e quanto si pratica da tutte le altre nazioni d’Europa; ridicola essendo la credenza, che pur da taluni si ha, che il male stesso possa nascondersi negli uomini per molti giorni” (12). Ecco, appunto, la verità che “il male possa nascondersi negli uomini per molti giorni” cominciava a farsi strada. Nel 1849, Agostino Bassi (13) scriveva che il cholera morbus era prodotto da un parassita, non ancora visibile con i microscopi a disposizione, il quale sicuramente trasmetteva il contagio. Nascondendolo nell’uomo per molti giorni. Ma intanto “l’alter ego” aveva sentenziato. Quando il detto alter ego fu costretto a lasciare, in esilio, la Sicilia, la nave che lo portava non trovò nessun porto italiano che lo accogliesse tanta la sua fama era tristemente nota. Morì dimenticato da tutti ed è un peccato. Se ne potrebbe fare un film o dei serial thriller che avrebbe avuto tanto successo.
NOTE: (1) Istruzioni per difendere i diversi comuni della Sicilia dal Colera Morbus. Palermo 1836. | |||||||||||||||
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