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quando per telefonare si andava in posta |
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di Giuseppe PREZIOSI(da l'Occhio di Arechi n. 29 dell'A.S.F.N.) | |||||||||||||||
La comunicazione telefonica è stata certamente una delle conquiste tecnologiche più importanti della fine dell'Ottocento. Il padre del primo telefono efficiente fu l'italiano Meucci che nel 1871 realizzo, su suolo americano, un apparecchio che funzionava per brevi distanze, vista la scarsa qualità del microfono, con trasmissione su linea a due fili. Si deve però al Bell nel 1876 e ancor più all'Hughes nel 1877 se il telefono uscì dalla fase sperimentale per passare a quella dell'utilizzo pratico, grazie appunto alla modifica e al potenziamento del microfono. A New Haven, già nel 1878, entrò in funzione la prima centrale telefonica a commutazione manuale. In pratica, gli utenti erano collegati tutti ad un unico "ufficio" in cui si provvedeva manualmente allo smistamento delle telefonate. Figlia della stessa tecnologia fu anche la prima centrale telefonica di Parigi (1879) e italiana di Milano (1889). Ovviamente, l'istallazione delle linee e la costruzione delle centrali richiedeva un investimento non indifferente con una possibilità di espansione, tutto sommato, molto contenuta ed esclusivamente urbana. Lo Stato, però, comprese subito che il settore avrebbe potuto avere una rapida espansione, per cui nel 1892 avviò una sua regolamentazione tramite una legge che lasciava libertà di iniziativa all'imprenditoria privata ma che, tramite il sistema delle concessioni, prevedeva il riscatto gratuito degli impianti da parte dello Stato al termine del periodo di gestione. Per gli imprenditori si trattava di un rischio troppo alto e non remunerativo per cui quasi tutti preferirono investire nell'idroelettrico o nell'elettrochimico e, solo in modo marginale, nella telefonia (ad esempio la SIP nacque nel 1918 come Società Idroelettrica Piemontese). Nel settore, però, si inserirono presto le problematiche relative alla trasmissione e lunga distanza (onde radio) e soprattutto alla creazione di una rete telefonica nazionale e interurbana. Nel 1903 il Parlamento varò una legge che prevedeva la costruzione di 34 linee che avrebbero dovuto collegare tra loro i capoluoghi di provincia e ciò mediante capitale esclusivamente pubblico. I collegamenti furono realizzati in modo rapido, almeno fino allo scoppio della prima guerra mondiale quando subirono l'inevitabile rallentamento dovuto alla carenza di risorse, assorbite quasi totalmente dal conflitto. Nel frattempo le centrali telefoniche urbane avevano subito la rivoluzione dell'automazione dovuta all'adozione dei nuovi modelli elettromeccanici di telefono con numero selezionabile tramite disco rotante. In ambito cittadino furono addirittura collegate diverse centrali e ciò accrebbe il numero degli utenti e la facilità di utilizzo degli apparecchi, eliminando i tempi morti dell'attesa dell'interconnessione tramite operatore. Lo stato nel frattempo (1907) aveva proceduto ad un primo tentativo di nazionalizzazione di una parte della rete telefonica, soprattutto nelle aree economicamente più sviluppate. Le spese di guerra misero però in crisi il sistema pubblico che si trovò nell'impossibilità di gestire i costi crescenti del completamento della rete nazionale e del contemporaneo sviluppo di quelle urbane. Nel 1923, perciò, tra i primi atti del neonato governo Mussolini, vi fu la privatizzazione della telefonia. Furono identificate 5 macro aree per la cui vendita fu bandita una gara pubblica, mentre lo Stato rimase proprietario, tramite il Ministero delle Poste, con l'Azienda di Stato per i Servizi Telefonici (ASST) delle più importanti linee interurbane e delle relative interconnessioni. Nel 1925, dopo la gara d'appalto, le società aggiudicatrici furono la STIPEL (per il Piemonte e la Lombardia), la TELVE (per le tre Venezie) e la TIMO (per l'Emilia, le Marche, l'Umbria, l'Abruzzo e il Molise) che furono acquisite dalla SIP nel 1928; La TETI (del Gruppo Pirelli e Credito Italiano per la Liguria, la Toscana, il Lazio e la Sardegna) ed infine la SET (della svedese Ericson, per l'Italia Meridionale e la Sicilia). Alla fine degli anni venti e prima della nascita dell'IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale, 1933) che avrebbe acquisito la STET (le tre vecchie società di nuovo scorporate dalla SIP), le concessionarie, ciascuna nella propria area di competenza, erano impegnate a collegare tra loro i centri, cominciando dai maggiori. Molto spesso la rete di un'intera provincia faceva capo al capoluogo, verso cui o da cui il traffico era certamente più remunerativo, mentre lo Stato provvedeva alle connessioni a lunga distanza (incassando i relativi proventi) anche se i tempi di collegamento erano, a volte, lunghissimi, dovendo fare i conti con il ridotto numero delle linee e con l'ondivago andamento del traffico. Molti di noi ricordano ancora, agli inizi degli anni Cinquanta, i tentativi di parlare con parenti ed amici residenti nel Nord Italia (ma bastava Roma per mandare in tilt il sistema), utilizzando i posti telefonici pubblici. Posti che nei paesini la Società per gli Esercizi Telefonici non sempre riuscì a sistemare in esercizi pubblici. In principio, specie nei centri minori, i bar o gli empori rifiutarono l'allacciamento alla rete e soprattutto di pare da posto telefonico, poiché il guadagno era inferiore alla spesa da sostenere e le richieste di telefonate erano troppo poche. La SET, allora, preferì appoggiarsi quasi ovunque agli Uffici Postali che già svolgevano il servizio telegrafico e potevano essere utilizzati anche come posto telefonico pubblico. La Società preparò anche dei bollettari, da numerare di volta in volta, per riscuotere la tariffa dovuta che includeva un piccolissimo agio per il gestore dell'Ufficio.
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