Le "divise uniformi" degli impiegati
delle Poste Granducali - 1835 |
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Granduca LEOPOLDO II a GAETA - Dal 01.01.1849 al 21.02.1849
1ª PARTE
Focalizziamo una fase dalle conseguenze decisive per la storia della Toscana, verificatasi nell’ambito della prima Guerra di Indipendenza, principalmente nel precario interludio fra l’armistizio di Salasco del 9 agosto 1848 e la ripresa delle ostilità il 20 marzo 1849, fino alla susseguente restaurazione. Lo studio si articolerà attraverso l’esame di una serie di documenti originali e del tutto inediti, che ruotano attorno all’episodio cruciale della fuga del Granduca Leopoldo II dalla Toscana verso Gaeta.
Dovuta premessa, è che in quel periodo storico l’orientamento politico in Toscana si andava consolidando su posizioni indipendentiste addirittura più avanzate rispetto al già diffuso Neoguelfismo propugnato da Gioberti che si erano potute diffondere, soprattutto nelle élites intellettuali e borghesi, in Toscana più che altrove grazie alla relativa libertà di espressione e di stampa ed all’accoglienza data a tanti patrioti esiliati da tutt’Italia, assicurata dal regime moderato e adesso anche costituzionale di Leopoldo II.
Ciò è dimostrato da un illuminante documento inedito (Foto 1,2,3,4): la lettera scritta il 16 luglio 1848 da Raffaello Lambruschini (n.d.r.: patriota giobertiano del Circolo Vieusseux, all’epoca segretario del Circolo Politico fiorentino e, di lì a poco, Presidente dell’Accademia dei Georgofili) al patriota Siciliano Emerico Amari (n.d.r.: membro del Parlamento Rivoluzionario Siciliano, illustre giurista considerato il padre del Diritto Comparato e futuro docente di Filosofia della Storia a Firenze), nella quale viene descritto l’incontro ed i colloqui fra lo stesso Lambruschini e Gioberti in occasione della visita di quest’ultimo a Firenze, ove tenne una serie di conferenze, fra le quali quelle all’Accademia dei Georgofili, all’Accademia della Crusca ed al Circolo Politico. Nell’Appendice Documentale n°1 è riportato il testo integrale e relativi commenti. È di interesse il passo nel quale Lambruschini riferisce che <<la summa del discorso nel Circolo si è che la unità ossia l’Italia ridotta ad unico Stato è il fine a cui dobbiamo tendere: ostacolo per lui non sono che l’esistenza d’altri Principati cosicchè se uno per caso ne manca, il meglio da fare si è di unire al Piemonte il suo regno. Io come Segretario dovetti fare il mio discorso e sostenendo la Federazione non pei Prìncipi ma pei Popoli mi trovai mille miglia distante da lui e tutti appresero il mio ragionamento come una protesta, che non dispiacque>>.
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(Foto pp. 1, 2, 3 e busta) - Lettera del 16.07.1848 da Raffaello Lambruschini a Emerico Amari |
Riprendiamo il filo della storia dall’armistizio di Salasco, che coinvolgeva anche il Granducato di Toscana in quanto alleato del Regno di Sardegna, ma per il quale grazie ai buoni uffici delle diplomazie inglese e francese non aveva avuto concrete conseguenze: già dal 7 agosto (due giorni prima della firma dell’armistizio) si sapeva infatti che il Granducato avrebbe avuta garantita la propria integrità territoriale, come evidenziato dalla Notificazione granducale emanata in tale data (Foto n° 5).
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(Foto 5) |
Ma al proprio interno l’armistizio ebbe la conseguenza di veementi attacchi in Parlamento del deputato livornese Francesco Domenico Guerrazzi al Primo Ministro Cosimo Ridolfi e di diffuse proteste di piazza per l’insufficiente supporto alla guerra dato dal Governo Toscano: Infatti a Curtatone e Montanara il fatto di essersi trovati pressoché privi di artiglieria e munizioni era costato il sacrificio di tanti patrioti toscani, soprattutto della colonna livornese-pisana-senese valorosamente condotta da Giuseppe Montanelli, egli stesso rimasto gravemente ferito e fatto prigioniero.
Il 17 agosto Leopoldo II, sull’onda delle proteste, sostituì il primo ministro Ridolfi con Gino Capponi. Ma il 23 agosto giungeva a Livorno a bordo dell’Achille Padre Gavazzi, noto propugnatore dell’Indipendenza e grande trascinatore delle folle, il cui sbarco fu impedito da un inconsulto provvedimento della Polizia, che provocò in città una dura protesta popolare di matrice democratica (si diceva: "cosa abbiamo ottenuto con lo Statuto se governa ancora un occulto potere reazionario che preclude agli amici della libertà di mettere piede in Toscana?"), che si aggiungeva alla contestazione per l’incerto supporto del Governo Granducale alla lotta per l’indipendenza nazionale, anche in previsione della certa ripresa delle ostilità, per la quale nella città labronica erano pronti un gran numero di volontari.
Per domare i disordini, che avevano condotto al saccheggio della caserma e costretto il governatore di Livorno a rifugiarsi nella Fortezza di Porta Murata, il Governo organizzò la concentrazione nella piana di Pisa delle colonne della Guardia Civica delle altre città toscane, per volgerle verso Livorno, come testimoniato dal manifesto dei primi di settembre della colonna civica di Arezzo, rivolto “Ai fratelli di Livorno” (Foto 6), con annotazioni manoscritte del patriota aretino Leonardo Romanelli, futuro Ministro di Giustizia nel Governo Provvisorio del 1849.
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Foto 6 |
Le Guardie Civiche avevano peraltro inteso questa azione come finalizzata a ritrovare unità e concordia con la città insorta: nel manifesto si legge infatti che: <<… il 12 settembre a Pisa (…) giureremo coi valorosi Figli di Livorno un patto sacro d’odio e di amore; d’amore eterno fra Noi, d’odio irreconciliabile pel Barbaro che contamina le nostre Contrade, finché non abbia rivarcato le Alpi>>, ma vista la situazione consolidatasi in Livorno, si sciolsero senza intervenire con la forza. Dalla Camera di Commercio di Livorno fu inviata a Firenze una deputazione per richiedere il rientro a Livorno di Francesco Domenico Guerrazzi, che in città godeva di vasto credito e prestigio personale il quale, pur senza un riconoscimento ufficiale da parte del Governo Granducale, riuscì a placare temporaneamente gli animi all’insegna del proclamato principio che “Il nostro nemico è il Tedesco, onta sia a chi ha potuto vedere i nemici d’Italia in altre fila, che in quelle degli stranieri!”, nel contempo inviando una delegazione cittadina di Livorno a Firenze per chiedere un nuovo Esecutivo. Di questi episodi è vivida testimonianza questa graziosa lettera “valentina” inviata da Livorno “fuori le mura” il 13 ottobre 1848 (Foto n° 7-8).
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(Foto 7 e 8) Lettera “valentina” da Livorno “fuori le mura” del 13.10.1848 |
<< Dopo il saccheggio della caserma, senza potervi opporre resistenza, al quale papà si trovò presente, questi vedendo che malgrado lui nessun Civico accorreva per mantenere l’ordine, decise di andare tutti in campagna. Difatti è stato bene perché altrimenti ci saremmo trovati testimoni di scene dolorose. Non si sa proprio cosa vogliono i Livornesi. Si servono ora di un pretesto ora di un altro per tumultuare. Questa mattina ho saputo che al tocco dopo mezzanotte è arrivato a Livorno una Deputazione che era andata a Firenze per il cambiamento del Ministero. Questa Deputazione dicono che abbia portato la notizia che il Ministero è caduto, ciò che mi pare impossibile. Il fatto sta che a quell’ora tarda hanno principiato a sparare cannonate e fucilate, a suonare tamburi e campane, a percorrere le strade con le solite bandiere. Anche adesso che è il tocco si sentono sempre delle cannonate dalla parte di Livorno. (…) P.S. Il Ministero Capponi è caduto di fatto: per questo Livorno esulta >>.
Infatti il 9 ottobre, non riuscendo a fronteggiare la montante contestazione, anche il Governo Capponi si era dimesso e neppure un incarico a Bettino Ricasoli condusse alla costituzione di un nuovo governo di matrice moderata. Fu così che il 27 ottobre Leopoldo II decise di giocare la “carta democratica”, conferendo l’incarico a Giuseppe Montanelli, professore universitario a Pisa e di idee notoriamente giobertiane, da poco rientrato dalla dura prigionia austriaca il quale, vincendo le remore del Granduca verso quello che questi considerava “l’agitatore livornese”, affidò a Guerrazzi il Ministero dell’Interno.
Il favore popolare verso questo nuovo Governo, che a Firenze si manifestò con il suono della campane a distesa e con la bandiera tricolore issata sul Campanile di Giotto, è testimoniato dal proclama della Comunità di Lucca al Granduca del 29 ottobre (foto 9), nel quale si dichiara esplicito apprezzamento e si propone di far ratificare un gruppo di cittadini che collaborino con esso per il ripristino dell’ordine pubblico: <<…i lucchesi hanno piena fiducia nel Ministero Montanelli e Guerrazzi, essendo certo col di lui mezzo di giungere e per Italia e per Toscana al conseguimento di tutti quei diritti nazionali (…) che meglio si addicono alla presente civiltà (…). Tutti ci stringeremo la mano da sinceri fratelli con un solo volere (…) all’acquisto della comune Indipendenza e Nazionalità.>>.
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(Foto 9) |
La questione politica del momento era peraltro il precipitare della situazione nello Stato Pontificio, che aveva spinto Pio IX a nominare Ministro dell’Interno e delle Finanze il moderato Pellegrino Rossi, convinto federalista per il futuro politico d’Italia. Ma la fazione democratica, orchestrata dalla Carboneria romana e condotta dal capopopolo Ciceruacchio, vedeva nel progetto federalista un pericolo per il proprio obbiettivo di un’Italia unita ed indipendente, fece precipitare la situazione sino all’assassinio di Rossi, il 15 novembre, e la fuga di Pio IX a Gaeta il 24 novembre, grazie all’aiuto del conte Spaur ambasciatore di Baviera, Stato nell’orbita austriaca, per rifugiarsi sotto la protezione del Re delle due Sicilie, Ferdinando II, presso il quale rimarrà sino al 12 aprile 1850. L’episodio fu subito preso di mira dalla satira, come si può notare dalla vignetta (foto 10) che raffigura il Papa travestito da semplice curato che viene accolto nottetempo sulla carrozza dal conte Spaur raffigurato da Aquila Bicefala Imperiale, mentre la Tiara simbolo del potere spirituale papale è ridotta a secchio per il recupero degli scarti.
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(Foto 10) |
A Roma, intanto, si stava insediando la Costituente Romana, alla quale il primo ministro toscano Montanelli, grande fautore da sempre di un’Italia unita ed indipendente pur muovendosi dall’ideale federalista, richiese la convocazione a Roma di un’Assemblea Costituente Italiana, ottenendo anche da Leopoldo II l’avallo per inviarvi 37 delegati toscani, eletti dal Parlamento Costituzionale Granducale.
Sino a questo momento Leopoldo II, che esattamente un anno prima aveva concesso la Costituzione, secondo in Italia solo alla Costituzione Siciliana, ed aveva adottato ufficialmente il tricolore come vessillo di Stato, primo in assoluto fra gli Stati preunitari, si dimostrò favorevole sia al perseguimento dell’unità ed indipendenza d’Italia, sia alla richiesta di Montanelli di essere promotore della Costituente Italiana; anzi, rispetto alle idee del Primo Ministro il Granduca si dimostrava addirittura più “estremista” propugnando il superamento della fase federalista, come si può desumere dal discorso che tenne in occasione dell’inaugurazione annuale dei lavori parlamentari, del 10 gennaio 1849 (foto 11 - 12 - 13), ed in particolare nella seconda parte del capoverso a pag.3 : <<La nostra Costituente non ripudia nessuna forma di ordinamento possibile. Ella accoglie in sé volenterosa tutto quanto o poco o assai giova ad accostarla alla meta desiderata. Ella aspetta essere consentita dagli altri Stati Italiani, coi quali importa starci uniti più che coi vincoli di confederazione con quelli di fratellanza.>>.
Proprio in quel frangente giunse però la notizia che il primo gennaio 1849, Pio IX aveva emanato da Gaeta un “Breve” che comminava la “scomunica maggiore” a chiunque avesse compiuto atti contrari al mantenimento del potere temporale del Papa, notizia che provocò un’ondata di commenti negativi da tutti gli ambienti più evoluti, come si può desumere dall’editoriale “La Scomunica giudicata dai giornali italiani” del “Corriere Mercantile” del 16 gennaio 1849 (foto 14), dove si legge fra l’altro: << La scomunica lanciata da Pio IX per solo fatto politico è il più madornale sproposito che potesse farsi da un uomo di Stato. Il terribile anatema che la setta retrograda considerava come il suo pezzo di grosso calibro, fu considerato come un anacronismo, fu messo in ridicolo. La stampa italiana moderata riprova con quasi unanime voce l’atto inconsiderato del Pontefice che per salvare il vacillante dominio del Principe indebolisce l’autorità del Capo della Chiesa.>>
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(Foto 14) Corriere Mercantile del 16.01.1848 |
La satira non si fece attendere: in questa vignetta (foto 15) si vede il Papa usato come uno strumento musicale dall’Aquila Bicefala Imperiale austriaca, che avrebbe ispirato il Breve, con il supporto del Pulcinella napoletano, sullo sfondo della fortezza di Gaeta, nella quale veniva tenuto sotto controllo.
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(Foto 15) Vignetta satirica di Pio IX “strumento austriaco” |
Ma su Leopoldo II, cattolico osservante ed esponente della casata Asburgo d’Austria che rappresentava un baluardo del cattolicesimo, questa notizia fu causa di forti turbamenti che lo spinsero a temporeggiare per la ratifica della nomina dei 37 delegati toscani alla Costituente Italiana, che pure erano già stati eletti dal Parlamento Toscano, ed a chiedere direttamente ai vertici della Chiesa lumi su come comportarsi al fine di evitare la scomunica, esito che egli aborriva.
Nel frattempo aveva inviato la propria famiglia a Siena, città di sicura fede granducale.
È esattamente a questi episodi che si riferisce la lettera scritta da Firenze il 26 gennaio 1849 da Leopoldo II, a propria firma, all’Arcivescovo di Siena il Monsignor Giuseppe Mancini, con tanto di busta indirizzata, qui riprodotte (foto 16, 17), affinché si pronunci <<…con tutta chiarezza e libertà assoluta, ed in modo decisivo …>> se la posizione che egli aveva assunto verso la Costituente Italiana e che avrebbe dovuto concretizzarsi proprio in quei giorni con la ratifica, poteva costituire un comportamento sanzionabile nei termini del Breve papale; inoltre se fosse sufficiente l’atto di “approvazione generica” dell’Assemblea Costituente oppure fosse necessario che questa venisse “concretamente riunita”: già dal tono e dal tenore delle domande traspare lo stato d’animo turbato e timoroso del Granduca.
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(Foto 16, 17) Lettera di Leopoldo II all’Arcivescovo di Siena, del 26.01.1849 |
Purtroppo non si conoscono i termini esatti della risposta dell’Arcivescovo, ma dalle dichiarazioni e dagli atti successivi del Granduca si desume che questa dovette essere assolutamente tranchant.
Leopoldo decise così di lasciare Firenze per portarsi anch’esso a Siena, dove fu accolto da manifestazioni di giubilo di quella parte della cittadinanza di orientamento conservatore, fra grida di “Abbasso la Costituzione” e di “Evviva l’Austria”, con la stessa Guardia Civica che li sosteneva.
La parte liberale della cittadinanza, per fronteggiare tali provocazioni, il 2 febbraio si concentrò sul prato della Lizza, la piazza delle adunate popolari senesi, invitando il Prefetto a tenere un discorso per spiegare al popolo la Costituzione. Anche il Granduca promise di tenere un discorso di esortazione alla concordia ed alla pace. Fra la folla si incrociavano le invocazioni di “Viva Leopoldo” e di “Viva la Costituente”, così come le bandiere bianche granducali ed i tricolore. Inopinatamente il Granduca si affacciò al balcone, salutò la folla ma non profferì parola, circostanza che fece scaldare gli animi, con conseguenti disordini e fatti di sangue.
Giunta notizia a Firenze, il Governo scrisse al Granduca di rientrare nella capitale, ma questi rispose di essere ammalato e di non potersi muovere. Il 7 febbraio Montanelli in persona si precipitò a Siena, dove trovò Leopoldo II allettato <<…più che altro di paura, ed insofferente di parlare di affari di Stato…>>.
Nella stessa giornata, con la scusa di andare a fare una salutare passeggiata con la famiglia, salì su una carrozza che di tutta corsa lo condusse per la via della Maremma Toscana verso l’Argentario, ove a Porto Santo Stefano lo attendeva una nave da guerra inglese, a bordo della quale si rifugiò, sentendosi ivi più al sicuro.
Si trattò di una vera e propria fuga dalle proprie responsabilità e dalle precedenti prese di posizione, che certo non ha reso onore storico alla figura per altri versi apprezzabile del Granduca. Egli lasciò due lettere per Montanelli: nella prima affermava di non voler lasciare la Toscana, bensì la città Firenze ove non si sentiva libero di porre il veto sulla legge di nomina dei delegati, e la città di Siena ove temeva che la sua presenza potesse essere causa di disordini, per riparare quindi in un angolo tranquillo del Granducato, senza però specificare la località; sollecitava inoltre il Primo Ministro Montanelli a curare il mantenimento dell’ordine pubblico; nella seconda gli raccomandava i propri servitori e masserizie, spiegando la sua decisione di non rientrare nella Capitale con il fatto che <<…dopo le censure pontificie sulla Costituente Romana, non mi regge l’anima di mettere me stesso ed i toscani contro la Chiesa >>.
La notizia della fuga del Granduca produsse immediati effetti a Firenze: manifestazioni, comizi, campane a distesa, per richiedere la costituzione immediata di un governo provvisorio che coprisse il vuoto di potere lasciato dal Granduca. Fra la montante tensione, l’autorità di Guerrazzi portò alla decisione di far eleggere dal popolo di tutta la Toscana (e non solo dalle piazze di Firenze) i nuovi governanti, previa anche la ratifica del Senato. In effetti la situazione non era ben chiara: il Granduca si era, sì, allontanato dalla Capitale, ma si trovava ancora sul suolo toscano ed aveva dichiarato di non volerlo abbandonare né tantomeno aveva abdicato: il rischio di operazioni avventate era, ovviamente, lo scontro aperto con la parte della popolazione tuttora favorevole al Granduca.
Intanto il Granduca da Porto S. Stefano organizzava l’estrema resistenza: d’accordo con Carlo Alberto, ordinò alle truppe toscane di stanza a Massa, comandate dal Conte De Laugier (l’eroe di Curtatone e Montanara), di riunirsi al confine Sardo-Toscano di Sarzana alle truppe piemontesi condotte da La Marmora, per marciare su Firenze e reinsediarvi il Granduca.
L’ 8 febbraio, Mazzini sbarcava a Livorno accolto da una folla in tripudio: fu proprio lui ad annunciare la fuga del Granduca e della sua famiglia, con la folla che acclamava “Viva la Repubblica!”.
Lo stesso giorno 8 Guerrazzi telegrafa al Governatore di Livorno di inviare 200 cittadini armati, con il piroscafo postale toscano “Giglio” a Portoferraio (là riteneva erroneamente che si trovasse il Granduca) per negargli ospitalità sopra il suolo toscano. La spedizione, accolta male a Portoferraio, rientra senza esito.
Il 9 febbraio, in contemporanea con la proclamazione della Repubblica Romana, si formò un Governo Provvisorio guidato da un Triumvirato con la presidenza a rotazione settimanale fra i tre: Francesco Domenico Guerrazzi, Giuseppe Mazzoni e Giuseppe Montanelli, con lo scopo di scrivere una nuova Costituzione, annunciato alla popolazione con il manifesto del 10 febbraio (foto 18), ove si motivava questa decisione con l’aver il Granduca <<… abbandonato il paese a se stesso noi fummo dal Parlamento Toscano, e dal Popolo eletti custodi della pubblica sicurezza…>>. La stessa sera del 9 febbraio la Guardia Civica disperse una sollevazione di fronte a Porta San Frediano di contadini e soldati disertori: la parte filogranducale evidentemente stava covando e gli agitatori, nell’ombra, erano già in azione.
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(Foto 18) Insediamento del Governo Guerrazzi - Montanelli – Mazzoni |
Il Governo Provvisorio aveva intanto decretato l’abolizione del Consiglio Generale e del Senato, sostituiti da un’unica Camera di 120 deputati da eleggere a suffragio universale entro il 10 marzo, creando così un’Assemblea Legislativa Toscana che implicitamente comportava la revoca della legge di adesione alla Costituente Italiana. La situazione mutò quando giunse da Roma una lettera della Costituente che invitava la Toscana a parteciparvi ed a proclamare l’unione con Roma: la parte democratica guidata da Montanelli la appoggiò pienamente prevalendo sulla posizione di Guerrazzi, prendendo così la decisione che il 14 marzo si sarebbero eletti i deputati alla Costituente.
Il 17 febbraio il generale De Laugier emanava da Massa un proclama che dichiarava non esser vero che il Granduca avesse abbandonato il governo e quindi chiamava a raccolta la popolazione per la restaurazione granducale. Quel proclama provocò una decisa reazione nel popolo fiorentino: lo stesso giorno il Circolo Popolare offriva un banchetto sotto le logge degli Uffizi in onore alle Deputazioni delle città toscane.
Anche Mazzini era accorso a Firenze e tenne un applauditissimo discorso dalle logge dell’Orcagna per sostenere la Repubblica e l’unione con Roma. Si tenne una sorta di plebiscito per la Repubblica, le campane suonarono a distesa e comparvero in molte piazze Alberi della Libertà e Berretti Frigi. Lo stesso Guerrazzi riuscì a malapena a tener sotto controllo questa esuberanza popolare che cercava di sopraffarlo, arringando: <<Ebbene, volete la Repubblica? E Repubblica sia, a patto che domani duemila giovani fiorentini sieno in armi pronti a difenderla>>. Fu comunque stabilito che l’ordinamento repubblicano e l’unione con Roma avrebbero dovuto esser ratificati nell’Assemblea del 14 marzo: ciò nonostante, a Livorno, Pisa, Grosseto, Siena fu preso come fatto compiuto e si festeggiava la Toscana Repubblicana.
Al proclama di De Laugier, che intanto si era messo in marcia verso Lucca con tremila soldati e 28 cannoni, il Governo Provvisorio Toscano rispondeva il 18 febbraio con un altro proclama (foto 19), nel quale si dichiara che <<… il Conte De Laugier col suo proclama del 17 corrente si è fatto eccitatore di guerra civile …>> e che quindi il legittimo Governo Provvisorio sente il dovere di decretare <<…che il Conte De Laugier è dichiarato traditore della Patria … che i soldati tumultuanti son dichiarati ribelli … che il Ministero della Guerra è incaricato della esecuzione del presente decreto ..>>. Inoltre il Governo Provvisorio assegnava i pieni poteri emergenziali a Guerrazzi che, assieme al generale D’Apice alla testa della Guardia Civica, si portò a Lucca, accolto ovunque da grandi acclamazioni.
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(Foto 19) - Manifesto di condanna di De Laugier del 18.02.1848 |
Il 19 febbraio il Governo Provvisorio dirama un nuovo lungo proclama, a firma di Giuseppe Mazzoni in qualità di “Presidente di settimana” (foto 20), nel quale si noti come non si citi mai la parola “Granduca” o “Leopoldo II”, bensì ci si riferisca a lui sempre con l’appellativo “Leopoldo Austriaco”, per sottolinearne allo stesso tempo la decadenza dal titolo principesco e la sua origine straniera. In particolare, si contestano le affermazioni del proclama di De Laugier, motivando invece punto per punto tutte le circostanze che invece dimostravano l’abbandono da parte di Leopoldo delle proprie prerogative di governo; si accusava De Laugier di fomentare scelleratamente la guerra civile; lo si tacciava di menzogna per aver millantato il soccorso da parte dal Piemonte; si rendeva conto della volontà del popolo toscano, espressa nella pubblica assemblea di Piazza della Signoria, di una <<…REPUBBLICA UNITA CON ROMA…>>.
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(Foto 20) Manifesto di decadenza del potere del Granduca del 19.02.1848 |
La mai sopita parte filo-granducale, essendo Guerrazzi assente da Firenze ed essendo Montanelli malato, la sera del 21 febbraio organizzò una turba di contadini che scesero dalle colline verso la città, ma Montanelli benché infermo, dal balcone di Palazzo vecchio chiamò a raccolta i cittadini che, assieme alla Guardia Civica, riuscirono a disperdere gli insorti.
Intanto il grosso delle truppe di De Laugier si dirigeva verso Camaiore, mentre Guerrazzi e D’Apice gli si facevano incontro con segnali di pace, cosicché sia la cittadinanza che gli stessi soldati di De Laugier li accolsero acclamandoli. Così pure avvenne a Viareggio, Pietrasanta e Carrara, che De Laugier aveva tentato invano di sollevare. Alla fine il generale, rimasto con solo una trentina di soldati fedeli fece appena in tempo a riparare a La Spezia, in territorio piemontese, verso il sopravveniente La Marmora. Come si legge in questo stesso proclama <<…il Conte De Laugier sbigottito dell’atrocità del suo delitto (…) dichiarato traditore della Patria (…) a quest’ora forse è fuggito. Fugga! noi non gli invidiamo gli avanzi della miserabile sua vita! Fugga! e viva, e desideri l’ombra della morte come sollievo della vergogna! …>>.
Questo episodio provocò a Torino la caduta del governo Gioberti: infatti egli era stato insediato alla presidenza di un Consiglio dei Ministri di natura patriottico-democratica, per cui non appena si venne a conoscenza che il Primo Ministro di propria iniziativa aveva disposto l’invio della colonna militare al fine di restaurare al potere il Granduca austriaco, per di più con l’orgoglio militare piemontese intaccato da quel maldestro tentativo, non resse il contraccolpo e ne innescò la crisi.
APPENDICE DOCUMENTALE
1 - Lettera del 16 luglio 1848 da Raffaello Lambruschini ad Emerico Amari.
La lettera presenta anche degli aspetti curiosi, dato che Lambruschini esprime giudizi taglienti sulle attuali posizioni politiche espresse da Gioberti, contando nella condivisione di Amari, ma era all’oscuro che in quel tempo proprio Amari era stato incaricato dal Governo Siciliano in veste di Commissario inviato a Torino per offrire la corona di Sicilia al Duca di Genova, proprio in esecuzione di quel progetto di un’unità d’Italia per via dinastica, dei “prìncipi”, aspramente criticato da Lambruschini che invece vedeva, come Mazzini, il progetto unitario realizzabile solamente per via la dei “popoli”. Dal testo si evince che Lambruschini e la cerchia degli amici comuni non avevano da tempo notizie di Amari, tant’è che nel corpo della lettera riferisce di averla inviata a Palermo per la “via di mare” Livorno - Messina ma, probabilmente per notizie giunte all’ultimo momento sull’ubicazione del destinatario, fu inviata a Torino “all’inseguimento” dei vari spostamenti del diplomatico Amari, come testimoniato dalla “vissuta” coperta della lettera (foto 3): a Torino, da qui rispedita a Milano, a Brescia, di nuovo a Milano sino a riuscire a consegnarla in occasione di un secondo tentativo a Torino. Di seguito la trascrizione dell’intero testo.
"Caro Emerico,
ho ricevuto non meno di tre lettere di Agostino (nota 1) per Te la prima portata da Parlatore reduce da Palermo, le altre due per Posta; le ho date a Gemelli (2) per fartele arrivare. Agostino si lagna che non ha lettere Tue, e non sa dove sei, e vuol saperlo da me: ci ho un gran gusto. Può darsi che così si persuadano del Tuo umore bizzarro e che non ti credono quando tu ti lagni che io non ti scrivo, se eserciti il tuo privilegio di voler lettere e non scrivere con tua moglie, non è più meraviglia che lo esercitassi con me. I vapori postali francesi ora giungono sino a Messina e portano le corrispondenze dall’estero e dall’Italia per la Sicilia (3), io scrivo per questo mezzo. Tu, diplomatico, dovresti saperlo, ma se non lo sai te ne avverto per approfittarne: così avremo posta almeno tre volte al mese.
Le due lettere che ho ricevuto ieri con la posta le troverai qui accluse, l’altra avuta precedentemente l’ho data al Gemelli, il quale domandato da me dove eri (son parecchi giorni) mi ha fatto il solito discorso dicendo che non ne sapeva nulla. Immaginati quello che ho potuto scrivere contro di Te a tua moglie e a tutta la famiglia per questa tua colpevole latitanza.
Ho conosciuto finalmente il Gioberti. In Firenze, tomba delle celebrità, posso dirti che ha perduto più che acquistato nella sua visita. Gli fecero una dimostrazione popolare, ma sia per il sospetto che lo precedeva, sia perché di dimostrazioni ne abbiamo le tasche piene e ne siamo stanchi, fu freddissima l’Accademia dei Georgofili e quella della Crusca, tennero ciascuna una seduta a di lui onore; nella nostra intimità ti confesso che il discorso di Gioberti fu il più insignificante di tutti ai Georgofili ci parlò mediocremente della preferenza da darsi all’agricoltura sulla manifattura. Intervenne al Circolo Politico, vi espose le sue idee sull’unità e sulla Federazione. Devi sapere che egli venne in Firenze preceduto dalla opinione che suggerisse per conto di Carlo Alberto, e questa è la vera ragione per cui non ha avuto grandissima fortuna. La summa del discorso nel Circolo si è che la unità ossia l’Italia ridotta ad unico Stato è il fine a cui dobbiamo tendere: ostacolo per lui non sono che l’esistenza d’altri Principati cosicchè se uno per caso ne manca, il meglio da fare si è di unire al Piemonte il suo regno. Io come Segretario dovetti fare il mio discorso e sostenendo la Federazione non pei Prìncipi ma pei Popoli mi trovai mille miglia distante da lui e tutti appresero il mio ragionamento come una protesta, che non dispiacque. Tra le altre cose disapprovò che la Sicilia non si incorporasse col Piemonte. Che ne dici Tu, Commissario Siciliano? Domandò a me in segreto che ne pensassi, risposi che con un cambiamento di dinastia sarebbe più facile unirsi nuovamente con Napoli, a date condizioni, anziché col Piemonte, e questo veggo difficilissimo. L’unione col Piemonte appare impossibile (4). Ma egli mi assicurò che in Napoli vi è un forte seguito per Carlo Alberto. Vedi che illusioni! Ma in un uomo di sì probante ingegno tutto ciò si spiega col sapere che da 15 anni manca dall’Italia (5) e che chiuso sempre nel suo gabinetto la pratica gli manca totalmente.
Salutami il tuo collega; di Paolo ho sentito che giovedì scorso passò da Livorno. Addio. Tuo Raffaello."
NOTE:
(1) - Trattasi di Agostino Burgarella Ajola, patriota siciliano, in seguito medaglia di bronzo al valor militare per aver favorito la colonna dell’insurrezione di Trapani nell’Impresa dei Mille.
(2) - Trattasi di Carlo Gemelli, patriota deputato dal marzo 1848 al Parlamento Siciliano indipendente, e dall’aprile rappresentante del Governo Siciliano presso il Governo Toscano.
(3) - La linea dei piroscafi postali francesi proprio in quel periodo fu prolungata: Marsiglia-Genova-Livorno-Civitavecchia-Napoli-Messina-Malta.
(4) – L’opinione prevalente in quegli ambienti era di non rafforzare troppo il Piemonte che stava annettendosi il Lombardo Veneto, le Legazioni Pontificie ed i ducati di Parma e di Modena, controbilanciando con una unione degli Stati dell’Italia Centrale ed un’altra degli Stati Meridionali, per dare luogo ad una Federazione Unitaria Italiana.
(5) - Gioberti fu esule fra Parigi e Bruxelles dal 1833 al 1847.
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