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  Il servizio postale a Pistoia "narrato" da Vittorio Baracchi
Circolo Filatelico Numismatico Pistoiese

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Il brano che segue è uno stralcio dal volume "Pistoia e la sua provincia" scritto da Vittorio Baracchi nel lontano 1985.
Vittorio, nato in Emilia e diventato pistoiese nel 1942, iscritto all’albo dei giornalisti dal 1954, era un appassionato ricostruttore di storie, storielle e biografie, facente parte di quella schiera di raccoglitori di documenti e collezionisti, che divulgano la loro conoscenza dopo una certosina e laboriosa opera di raccolta di immagini, documenti scritti e testimonianze orali.

Nel suo negozio in centro città, sulla Sala, si può considerare il capostipite dei collezionisti divulgatori pistoiesi; spirito libero, nella sua opera ha patito quella trascurata attenzione che gli operatori istituzionali della cultura spesso rivolgono a chi fa collezionismo per amor patrio e che ha colpito illustri concittadini in ogni epoca .

Collezionista filatelico e storico postale scrisse appunto un capitoletto sulla storia postale pistoiese, con quel suo stile canzonatorio ed irriverente che lo contraddistingueva; volendone dare un doveroso ricordo, ne riportiamo l’intero capitolo come una “narrazione” postale di Pistoia.

Il Circolo Filatelico Numismatico Pistoiese
09/04/2021

V.BARACCHI, Pistoia e la sua provincia. Dieci secoli di storia cento anni di immagini, volume primo, Pistoia, Edizioni culturali pistoiesi, 1985.

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Già nelle varie età dei metalli le comunicazioni fra i vari villaggi italiani erano assicurate dalle strade, costruite specialmente per far marciare speditamente gli eserciti ma anche per far rimbalzare da una fungaia di capanne all’altra le notizie su ciò che succedeva a destra e a sinistra nel mondo.
Nel medioevo la nostra penisola era una vera ragnatela di sentieri e di viottoli e piste quasi invisibili. Vi si incrociavano, di giorno e di notte, corrieri e staffette a piedi e a cavallo, sotto al sole che faceva sciogliere le ossa e al gelo invernale che le faceva scricchiolare. Si aprivano varchi fra boschi, fosse,precipizi, si arrampicavano sulle gobbe dei monti fin dov’erano più alte e scoscese, attraversavano alla meglio i torrenti schiumosi e correvano sulle rive dei fiumi finché non trovavano un punto dove potevano attraversarli senza il pericolo di annegare. Di notte si riposavano per terra sopra al loro mantello e sotto agli stracci delle nuvole e spesso arrivavano a destinazione così spossati che dopo la consegna dei messaggi cadevano in terra, come fanno quei fantocci pieni di segatura che, se ci si fa un buchino, subito si svuotano e si afflosciano.
Da principio soltanto i ricchi e i potenti si servivano di questi corrieri, i primi per bisbigliarsi le frivolezze della loro vita dorata, i secondi per ammassare soldati, intrecciare alleanze, fissare quegli strani matrimoni che celebravano per mille motivi meno che per amore, ma soprattutto per imporre tasse e balzelli a chi calpestava le terre che dominavano.
Nel ‘300 ebbero inizio servizi postali più efficienti. A organizzarli furono dapprima i raggruppamenti delle Arti e dei Mestieri, che mettevano i loro cavalli e rudi cavalieri a disposizione delle necessità commerciali degli associati. L’Arte della Lana e l’Arte dei Cambiatori furono le prime ad accettare lettere e messaggi anche da cittadini non iscritti alla loro Arte, che potevano portarli nei loro uffici un’ora prima della partenza dei corrieri. Nato così per necessità, il servizio postale privato si dimostrò subito un grosso affare, una vera fabbrica di quattrini, come lo sono tutte le cose che vengono seminate in terra vergine. I vari granduchi,conti, marchesi, che avevano diviso l’Italia in tanti bocconi come una torta e che in comune avevano soltanto una cosa, la cupidigia, nel vedere qualcuno che riempiva di monete casse e sacchi che si trovavano fuori dai loro palazzi cominciarono prima a fare una concorrenza spietata fino alla slealtà, e poi a imporre limitazioni e divieti severi fino all’arbitrio. Le corrispondenze dei cittadini non avevano alcun contrassegno, perché il pagamento era fatto da chi riceveva il messaggio e perciò chi lo portava cercava di metterlo il più presto possibile nelle mani del destinatario. Quelle dei ricchi e dei potenti venivano abbellite invece con stemmi e sigilli impressi da una specie di tenaglia a maschio e femmina che lasciava l’impronta delle sue mascelle su tutti i fogli e inoltre il loro viaggio era accompagnato come da un angelo custode da un foglio dov’erano segnati gli orari della partenza, delle soste, dell’arrivo e della consegna e dove ogni ritardo doveva essere scrupolosamente annotato e giustificato.
Ben presto anche i privati presero l’abitudine di abbellire le loro lettere con dei segni che imitavano i sigilli più prestigiosi, anche per proteggerle dai mille pericoli che a quell’epoca avvolgevano le strade: uno stemma di Francesco Sforza o il sigillo di Ludovico III Gonzaga, uomini di poca misericordia che potevano marchiare con le stesse tenaglie indifferentemente una lettera d o una parte del corpo umano, incutevano nei briganti, più che rispetto, terrore.
Le prime lettere pistoiesi con questi contrassegni sono del 1458, ed erano contrassegni curiosi che incitavano i corrieri a far volare le gambe o a frustare i cavalli senza pietà e spesso contenevano minacciose promesse di morte in caso di ritardi non giustificati.
I corrieri cominciavano spesso dei viaggi che dovevano durare parecchie settimane e i più previdenti si mettevano in saccoccia anche una carta postale dov’erano segnate le strade e le Poste, ossia i luoghi che potevano raggiungere per riposarsi prima che il cavallo avesse il cuore schiantato o rimanesse soffocato dalla bava.
La prima carta postale d’Italia venne stampata a Parigi da Nicola de Fer, geografo del Delfino, nel 1700. Pistoia è segnata sul percorso della strada postale Parigi-Roma, e precisamente “de Livorne a Florence, 60 milles, par Pise, Lucques, Borgo Bulgiano, Pistoie et Poggio Achaiano”.
Nel 1701 il geografo del duca di Modena, Giacomo Cantelli da Vignola, la ricopiò, Pistoie diventò Pistoia ma Borgo Bulgiano e Poggio Achaiano restarono tali e quali. Un’altra carta fu stampata nel 1730 a Norimberga da Giambattista Homanno e un’altra ancora nel 1748 dai suoi eredi, con i nomi pistoiesi orribilmente storpiati. Vi si leggono, al di fuori della strada postale, i paesi di Cahimieche, Mimiane, Prachi e la Magia di Tizano, e il torrente Lima diventa maschile, Limo.
Non esisteva ancora nessuna legge che regolasse il servizio postale, ma tutto funzionava a meraviglia e le lettere, senza i mattoni che oggi vi mette sopra la burocrazia, volavano. Chiunque poteva prenderne in consegna una e portarla a destinazione, questa era anzi l’occupazione preferita da tutti quei vagabondi che possedevano un cavallo perché potevano fermarsi alle varie Poste, luoghi allegri e molto simili ai moderni bordelli, a riempirsi di vino e far baldoria con le ragazze, e tutto a spese di chi aspettava il messaggio, che molto spesso conteneva soltanto delle sciocchezze.
A Pistoia questo servizio postale privato durò fino al 5 dicembre 1704, quando Lorenzo Mazzoni, pubblico banditore di Giangastone de’ Medici, arrivò sulla Sala a gridare dall’alto del suo cavallo le nuove leggi che il suo sovrano e signore aveva promulgate una settimana prima “in materia di vino, macello, poste, procacci e vetturini”. Al servizio postale venivano finalmente date delle regole, e naturalmente tutte a vantaggio del granduca.
“Nè meno potranno i suddetti carrozzieri , e altri come sopra, che vengono da’ luoghi dove siano procacci dipendenti dalla Posta, portar lettere sigillate per farsene pagare il porto, ma solamente vien permesso a’ mercanti poter spedire pedoni con le sole lor letter sigillate, sotto la pena quando portassero lettere d’altri di due tratti di fune”.
“Tutti i corrieri che si spediranno si per il servizio di S.A.R. come d’ogni altra persona, deano indifferentemente pagare al generale delle Poste il solito diritto, o carrettaggio. E se a qualunque corriere o altra persona che vada per la posta fosse concessa la licenza della traversa per qualsivoglia luogo, dovrà nondimeno pagare le corse pe’ Postieri”.
“Non sia lecito a persona alcuna portare il segno di corriere coll’ arme di S.A.R. se non a quelli che per servizio della medesima saranno spediti dal Generale delle Poste e che n’avranno perciò la patente. E se alcun corriere fosse per tal causa catturato, dovrà subito dal giudice darsene avviso al Generale delle Poste, e allegando i medesimi aver perso tal patente, in caso di probabilità, possono rilasciarli con mallevadore”.
“Li corrieri che entrano in Firenze o altra città degli stati di S.A.R. ordinari o straordinari, che vengono per la posta, debbono presentarsi all’ Ufizio del predetto Generale con notificarli donde vengano, o dove passino, sotto l’ infrascritte pene in caso di trasgressione”.
“I postieri delle città non possono mettere a cavallo corrieri, né altra persona di qualsivoglia sorta, per posta senza licenza”.
“Tutti li postieri devono e sono obbligati tenere alla fronte dei loro cavalli l’ arme di S.A.R. con la pelle di tasso, e sonagli, a distinzione degli altri cavalli de’ vetturini, a quali sia in tutto proibito di portare alcuna di dette insegne”.
“Dovranno osservarsi le tariffe, che già sono stampate, tanto circa il porto delle lettere quanto ancora intorno al pagamento da darsi a’ procacci per le condotte di some, fagotti, gruppi, e altro, che portassero da un luogo all’ altro”.
In Toscana il primo contrassegno a inchiostro sulle lettere fu usato nel 1767 a Firenze, parecchio in ritardo rispetto al Belgio (1674), alla Francia (1695) e alla repubblica di Venezia (1703). Aveva un caratteristico cuore rosso che circondava il nome della città, cosicchè tutte le lettere sembravano piene soltanto di baci e di sospiri d’amore.
Nel maggio del 1808 fu battuto il primo timbro a inchiostro sulla prima lettera pistoiese, lugubremente nero e circondato non da un poetico cuore ma da un rettangolo che sembrava una prigione.

La nostra città faceva già parte dell’impero di Napoleone e l’ufficio postale, anzi l’Ufizio des Postes aux Lettres, era sistemato sotto al portico del palazzo comunale, accanto all’ufficio della dogana, e per battere quel primo timbro si faceva un tal fracasso che molti abitanti di Piazza del Duomo rimpiangevano il tempo in cui si usavano tenaglie silenziose. Fu adoperato soltanto per sei mesi e quindi sostituito da altri tre, bagnati con inchiostro nero fino al giugno del 1813 e con inchiostro rosso fino al marzo del 1814.

Il numero 112 che faceva da cappello al nome di Pistoia, ricordava che la nostra città faceva parte del Dipartimento dell’Arno e che il porto doveva essere pagato dal destinatario. Le lettere P ai fianchi del numero dipartimentale, indicavano che il porto era già stato pagato dal mittente e che quindi la lettera doveva essere consegnata gratis. Il terzo timbro, molto raro se in nero, rarissimo se in rosso, con la sigla Deb. a significare déboursés, veniva appiccicato sulla schiena delle lettere respinte al mittente e di quelle non consegnate per l’indirizzo illeggibile o perché il destinatario era introvabile.
Contemporaneamente venivano usati numerosi bolli in franchigia, e cioè che nessuno pagava e che appunto per questo tutti i cittadini pagavano. Li adoperavano alcuni uffici pubblici, e la parola mairie voleva dire comune, e maire voleva dire sindaco, e meria e mairia erano errori.
Nel 1809 apparvero: Mairie de Pistoie, Mairie de Porta Carratica, Mairie de Cotigliano, Mairia della Sambuca, Juge de Paix de S.Marcello. Nel 1810: Comm.di Polizzia di Pistoia, su tre righe e losanga perché la parola polizzia era più lunga di quello che avrebbe dovuto essere, Maire de Pescia, Commissaire de Police Pescia. Nel 1811: Proc.Imp. Du trib. De Pistoia, Mairie de Serravalle. Nel 1813: Meria del Montale, Mairie de Porta Caratica con una r soltanto, Controle de Pescia, Mairie de Porte au Bourg, Mairia di Porta al Borgo.
L’impero francese crollò il 21 maggio 1814, ma i vecchi dipartimenti toscani dell’Arno (n. 112), del Mediterraneo (n. 113) e dell’ Ombrone (n. 114) continuarono ad usare i bolli napoleonici (Fivizzano fino al 1816) perché il granduca Ferdinando III voleva pavoneggiarsi un po’ sul suo vecchio trono riconquistato a ruminare i troppi e troppo urgenti affari del granducato: l’abolizione del divorzio, la carestia, i gesuiti, la sua recente vedovanza che lo obbligava a scegliersi una nuova compagna di letto, per il problema delle poste non c’era un angolino. Gli uffici postali non sapevano come comportarsi, ognuno agiva in modo diverso dall’altro, chi rimetteva in funzione i vecchi bolli a cuore, chi cancellava a scalpellate i numeri dipartimentali e ci fu anche chi (uffici di Arezzo e di San Quirico) continuò ad usare tranquillamente il déboursés che le poste granducali non prevedevano prima di Napoleone e non avrebbero permesso neanche dopo.

Nel 1814 Pistoia ebbe in dotazione una bella scatola con timbri nuovi di zecca:

La scatola era lussuosa, in legno pregiato, magnificamente intagliata da veri artisti stipettai fiorentini, i timbri avevano l’impugnatura dello stesso legno prezioso ed erano ben allineati, da bravi soldatini, con le impronte di bronzo che luccicavano come elmi. Questi timbri durarono fino al maggio del 1846, sostituiti già nel 1844 da due bolli circolari con la data, e sperimentati a Livorno nel 1839, che possiamo considerare gli antenati dei bolli moderni:


Nell’ufficio in piazza del Duomo fioccavano ogni giorno notificazioni, convenzioni, leggi, postille alle notificazioni e postille alle leggi. E’ del luglio 1814 una notificazione con la quale veniva chiuso l’ufficio postale di Pescia, che era stato aperto il 1 ottobre 1812, perché “non era di verun vantaggio”, del 19 aprile 1827 una notificazione in otto articoli per “tutelare la privativa della cambiatura dei cavalli inerente all’esercizio dei conduttori delle Poste Regie”, del 12 agosto 1827 il nuovo regolamento postale, del 12 dicembre 1827 le nuove tariffe generali, del 31 dicembre 1838 una convenzione con gli Stati Sardi, del 12 febbraio 1849 le disposizioni d’emergenza rese necessarie da un guasto alla strada ferrata Leopolda (“il servizio tra Livorno,Pescia e Pistoia sarà fatto per la via di Lucca, fermo restando che le corrispondenze debbono essere impostate un ora prima della loro spedizione”), del 5 novembre 1850 una convenzione con l’Austria.

Ogni tanto arrivavano in città nuovi timbri, un vero plotone di chiassosi soldatini. Arrivarono:

che servivano per segnare sulla schiena delle lettere la data di arrivo: Il primo fu usato dal 1828 al 1839, il secondo soltanto nel 1840. Arrivarono:

Il PP significava che il viaggio della lettera era stato pagato fino al confine del granducato, il PD che era stato pagato fino al luogo di destinazione. Il primo fu usato nel 1815 macchiato di rosso e dal gennaio 1825 al novembre 1835 macchiato di nero. Il secondo usato nel 1844 è abbastanza raro e molto ricercato dai collezionisti di lettere pistoiesi. Arrivò:

che venne battuto dal 1838 al 1845 sulle lettere importanti, sorelle maggiori delle odierne raccomandate.
Mani crudeli ogni giorno tempestavano con questi timbri migliaia di lettere, e siccome non erano piumini da cipria tutti insieme facevano un concerto insopportabile. Qualcuno propose di trasportarli in un posto più riparato, dove non fossero offesi gli orecchi dei cittadini. E naturalmente si pensò al Palazzaccio che aveva mura spesse e lunghi corridoi, e si sarebbero assorditi soltanto gli impiegati e le talpe, ma l’idea fu messa momentaneamente da parte per essere ripresa qualche anno dopo, nel nostro secolo.
Nel gennaio del 1815 anche le stazioni ferroviarie furono provviste di un timbro. Una convenzione col granduca obbligava le società che gestivano le strade ferrate a riservare su uno qualsiasi dei vagoni un posto a pagamento ai corrieri col sacco della posta sulle spalle. In cambio le autorizzava a raccogliere, trasportare e consegnare lettere e pacchi con tariffe e regolamenti propri. Ogni ufficio ferroviario aveva un soldatino e ogni soldatino aveva un elmo diverso. Quello che arrivò a Pistoia:

fu usato soltanto fino ad aprile. Le lettere S e F con un’a come bernoccolo, significavano Strada Ferrata. Molte stazioni ebbero anche un SV, Staffetta Veloce, ma la nostra no. La stazione di Radicofani, invece si.
Nel 1851 arrivarono a Pistoia i primi francobolli. Erano ancora senza denti, riuniti in grandi fogli deliziosamente azzurri, 240 ogni foglio, 240 leoni incoronati che appoggiavano la zampa destra sul giglio fiorentino, comodamente accosciati in quella posizione che usano anche gli uomini quando vanno a passeggiare in campagna dove non ci sono gabinetti. Nessuno sapeva maneggiare quei fogli e i francobolli erano così vicini l’uno all’altro che per ritagliarli senza privare i leoni della loro corona o della loro popò ci volevano gli occhiali. La novità ebbe grande successo e si dovettero ristampare altri fogli, un po’ meno azzurri, e poi altri, ancor meno azzurri, e altri ancora non più azzurri ma grigi, e nel 1857 fu deciso di usare una carta bianca più sottile, per risparmiare.
Sotto ai leoni era segnato il prezzo, in quattrini, soldi e crazie. La lira toscana si divideva in 12 crazie oppure in 20 soldi oppure in 60 quattrini, era facile perciò che per avere un francobollo da una crazia ci volevano cinque quattrini o 1,666 soldi, e che per avere un francobollo da un soldo ci volevano 30 quattrini o 0,60 crazie, e che per averne uno da un quattrino ci volevano 0,20 crazie oppure 0,333 soldi. E chi voleva pagare in lire italiane doveva moltiplicare la lira toscana per 0,84.
Oggi questi primi francobolli valgono molto. Una lettera ben conservata, con un bel francobollo da 60 crazie stampato su carta grigia, fresco e ritagliato alla perfezione, può valere persino 100 milioni. Con un 2 soldi scarlatto stampato su carta azzurra ci si può comperare un’automobile di grossa cilindrata e con 1 quattrino, il più piccolo della famiglia, di colore nero su carta grigia, un’utilitaria.
Il 27 aprile 1859 Leopoldo II scese dal trono. A comandare i toscani si formò un governo provvisorio che il primo gennaio del 1860 sfornò altri francobolli in lire e centesimi, con lo stemma Savoia al posto dello sconcio leoncino, utilizzando le rimanenze di carta dei francobolli precedenti. Invitiamo tutti i pistoiesi a cercare nelle loro soffitte un tre lire ocra giallo: se nuovo vale cento milioni, su lettera varrebbe un patrimonio. Poichè a Pistoia ci sono tante persone che hanno lussuose automobili, panfili al mare, favolose ville dove vivono una vita da nababbi senza mai lavorare e senza mai pagare una lira di tasse, qualcuno deve averne certamente trovati.