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La posta dei prigionieri di guerra

I DIMENTICATI
(prigionieri di tutti)

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MAKINDU: il campo e le corrispondenze

Gustavo Cavallini

L’esatta ubicazione del campo non ci e’ nota. Non doveva essere lontano dalla stazione ferroviaria e dal Tempio indiano. A Makindu gli Indiani di religione Sikh avevano costruito gia’ nel 1926 un tempio, molto visitato ancora oggi.

IL CAMPO DI MAKINDU DESCRITTO DA DE MONFREID

Al mattino, ai primi raggi del sole, su un'immensa pianura di erba giallastra, una stazione sembra annunciarsi con i suoi serbatoi zincati dell'acqua. Ma no, è la periferia di una città dice qualcuno, invece è un campo di prigionia, centinaia di baracche in cartone catramato che si allineano su chilometri quadrati. Poveracci, pensa de Monfreid, vivere in questo deserto... Quando lo fanno scendere, comincia a capire che in quel deserto ci dovrà vivere lui. È il campo di Makindu, un quadrilatero immenso diviso in venti settori recintati, ciascuno di trenta o quaranta baracche. Al centro, un campo di calcio con degli altoparlanti che, ogni sera, diffondono le notizie dell'Eiar di Roma. I bollettini trionfali dell'offensiva in Cirenaica, della caduta di Sebastopoli, dell'ecatombe di navi alleate nel mar Caspio, Ovazioni entusiaste li accolgono, sotto lo sguardo impassibile dei sorveglianti. È il 17 giugno del 1942 e capisce che gli inglesi vinceranno la guerra...

SIR ARTURO MERCIECA

Sir Arturo Mercieca e’ stato presidente della Corte Suprema (Chief Justice ) di Malta dal 1924 al 1940 quando e’ stato internato dalle autorita’ inglesi perche’ filo-italiano. E’ stato anche il fondatore della piu’ vecchia Unione Studentesca universitaria d’Europa, il Malta’s National University Students’ Council.

Nel campo di Makindu è stato internato brevemente, trasferito dall’Uganda, il giudice maltese Sir Arturo Mercieca. Nelle sue memorie ricorda che “ogni giorno venivano accesi dei fuochi per tenere lontani gli animali selvaggi dalle abitazioni”. Ricorda anche di aver visto il monte Kilimanjaro con la cima coperta di neve. E’ stato rimpatriato da Mombasa su una nave di lusso, il Batory, insieme a prigionieri italiani e polacchi.

Diariu di Prisgiunia scritto in lingua Gallurese

Alessio Vic Stretti, appassionato di storia e cultura della Corsica, ha scoperto il “Diariu di Prisgiunia“ di Giovanni – Ghjuannicu - Demuro, gia’ prigioniero in Kenya e successivamente a Liverpool, pubblicato nel 2005 a cura della figlia Battistina. L’opera e’ scritta in versi ed in Gallurese.

Ricaviamo la notizia in un suo articolo apparso il 22 giugno 2022 sul sito in lingua italiana Corsica Oggi.. La lingua Gallurese e’ una lingua romanza, del gruppo Italo-Dalmata, di tipo sardo-corso, parlata nel Nord della Sardegna e nel Sud della Corsica, promossa dalla Ciurrata internaziunali di la Linga Gadduresa, tenutasi annualmente a Palau, e regolata dall’Accademia della Lingua Gallurese La Vergine di Luogosanto.

Dall’articolo riprendiamo la parte che si riferisce alla sua prigionia in Kenya e in Inghilterra.

Ed ecco che il 23 ottobre 1941 Demuro e i suoi commilitoni vengono inviati fino alla lontana Berbera e di qui a Mombasa, principale scalo marittimo della colonia inglese. Vengono subito convogliati all’interno verso il famigerato campo di Machindu (oggi Makindu, poco a nord del massiccio del Kilimangiaro):

Da lu viagghju stracchi,
la disperazioni più ci afferra,
alloggemu in baracchi
apposta costruiti,
ma sempri come polci a costi a tarra.
"


Qui se non altro, trovano una “possibilità di svago” nell’ascolto dei comunicati Radio del campo che gli permettono di avere notizie dal mondo, per quanto “pilotate” dalla propaganda di Guerra.

Da qui arriveranno al campo di Andaragu, sempre in Kenia

«chi no è una locanda
ma si no altu, chici colcu in branda».

Dopo 9 mesi in questo centro detentivo, Demuro riceve finalmente una lettera dei suoi famigliari che stanno bene, e questo lo rinnova nella sua fede a “resistere” e non lasciarsi andare.

E’ qui che Ghjuannicu e i suoi compagni riceveranno notizia dell’8 settembre 1943, con tutte le divisioni del caso già citate nell’introduzione di Sebastiano Demuro.

Nel giugno 1944 i prigionieri italiani vengono trasferiti nel nuovo campo di Mariakani sulla strada per Mombasa (più vicini alla costa, dunque) dove ad accoglierli arriva subito un’epidemia di febbre tropicale:

Tra l’animi dannati
forsi più allegria
si po’ notà e di mancu sgumentu:
semu appena arriati,
e una epidemia
si manifesta in modu violentu,
si chiama “febbre nera”,
e da matina a sera,
so li malati gravi a centi e centu,
ma vo Deu pa solti
chi in cunfrontu pochi so li molti.

Il 14 luglio dello stesso anno, finalmente Demuro e compagni abbandonano le lande africane per tornare in Europa: il convoglio su cui vengono imbarcati a Mombasa, infatti, questa volta è diretto a Liverpool, in Inghilterra.

Decisamente le condizioni migliorano:

Chici no so li stessi
Kicui e Sudanesi
chi pal tre anni e mezzu timutu agghju,
so dui suldatessi
chi gentili e cultesi
ci dani lu cistinu da viagghju

In Gran Bretagna dunque niente più reticolati né guardie armate, ma libera uscita “dopo aver terminato i lavori”, dopo più

di tre anni e mezzi di tarrori,
chi solu a pinsavi
tremu pa’ lu timori di turravi.

Il nome che viene ora affibbiato ai prigionieri italiani dalle autorità inglesi è quello di «cooperatori», un termine ambiguo che si presta anche al disprezzo del comune cittadino britannico: nonostante quel poco di lavoro che gli viene concesso di fare, e “pasti caldi” ora degni di questo nome, infatti

in sustanza prisgiuneri semu.
Candu fora ci vidini,
paricchj si ni ridini
e quasi sempri a pugni l’agabbemu,
tantu chi no s’è mai
tranquilli mancu essendi a libaltai.

L’avventuroso Diario di Prigionia si chiude con l’avviso che il 10 gennaio del 1946 sarebbero finalmente tornati in Italia – e in effetti sbarcheranno a Napoli il 26 dello stesso mese, riuscendo finalmente a riabbracciare i propri cari.

Giovanni Demuro decide di raccontare la sua esperienza di vita nel Corno d’Africa tutto d’un fiato, da uomo di 33 anni che si trova sul fronte accanto ai suoi connazionali, senza la pretesa di dover descrivere quel mondo secondo un «senno di poi» che in questo contesto sarebbe risultato ipocrita e artificioso.

La figlia Battistina porta fuori dall’oblio (dopo oltre 60 anni di silenzio) i ricordi del padre in forma di poesia, con uno stile asciutto e senza filtri, utilizzando quella “lingua del cuore” che per Ghjuannicu poteva essere solo il Gallurese.

UNA FUGA FINITA IN TRAGEDIA

Nel maggio 1942 cinque prigionieri fuggirono dal campo 358 di Makindu ma si smarrirono nella zona del Kilimanjaro e incontrarono una sorte avversa. Quattro di essi, affamati e in preda alla disperazione, si impiccarono a un albero. Il quinto, Ernesto Tossi, fu salvato da un pastore indigeno. Fu lo stesso Tossi a descrivere la sua avventura al quotidiano di Nairobi ”The Sunday Post”.

Roy Ashworth ricorda che ancora nel 1950 c’erano nel campo almeno tre prigionieri italiani che si rifiutavano di partire! Dopo il rimpatrio dei prigionieri italiani il campo di Makindu e’ stato adattato per accogliere sette-ottocento ragazze polacche e in tutto vi sono transitate circa trecento famiglie prima di essere trasferite in Inghilterra.


FONTE

https://site.prigionieriinkenia.org


CORRISPONDENZA DA MAKINDU

 

Partixolarità di questa corrispondenza è la doppia censura, italiana in partenza e inglese in arrivo, e il bollo rosso Posta Aerea per Prigionieri di Guerra Via Sofia – Gerusalemme.

 

FONTE

https://www.ebay.it