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1860 - L'assedio di Gaeta |
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Gustavo Cavallini | ||||||||||||||
L'assedio di Gaeta tra il 5 novembre 1860 e il 13 febbraio 1861 fu uno degli ultimi fatti d'armi delle operazioni di conquista dell'Italia Meridionale nel corso del Risorgimento italiano. La città di Gaeta, al confine tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio, era difesa dai soldati dell'esercito delle Due Sicilie, ivi arroccati dopo la Spedizione dei Mille e l'intervento della Regia Armata Sarda. La caduta di Gaeta, insieme con la presa di Messina e l'assedio di Civitella del Tronto, portò alla proclamazione del Regno d'Italia. L'assedio durò 102 giorni, di cui 75 trascorsi sotto il fuoco piemontese. Tra tutti gli assedi subiti da Gaeta nella sua millenaria storia di fortezza militare fin dall'846, questo fu il più ingente per i mezzi militari impegnati. Venne prontamente allestita dai soldati borbonici una batteria con due cannoni a protezione della breccia, per impedire ai piemontesi di poterne fare uso per entrare a Gaeta via mare. Tra le file borboniche ci si domandò come avesse potuto essere così preciso il fuoco piemontese da centrare in pieno il deposito munizioni della batteria S. Antonio e si iniziò a sospettare che tale episodio fosse stato in realtà un atto di sabotaggio per anticipare la resa di Gaeta; molto probabilmente fu soltanto un colpo di fortuna a far centrare agli artiglieri piemontesi della batteria Madonna di Conca la polveriera S. Antonio, aiutati dal possesso delle mappe della piazzaforte. Anche dopo il crollo della batteria S. Antonio, le batterie piemontesi continuano con i loro bombardamenti, concentrando il fuoco su ciò che restava della batteria distrutta. Nel frattempo il generale Cialdini riunì il suo Stato Maggiore per mettere a punto la strategia dell'assalto finale; si iniziò a calcolare le forze militari necessarie per entrare via mare dallo squarcio aperto nella batteria S. Antonio, a stimare il numero delle eventuali perdite tra i soldati piemontesi e si incominciò a far esercitare i soldati all'uso delle scale; ma al momento l'idea dell'assalto finale via terra venne accantonato all'unanimità dalla Stato Maggiore, evitando un'azione di guerra che avrebbe causato rilevanti perdite, e si decise che la capitolazione di Gaeta dovesse avvenire aumentando i bombardamenti sulla città. Intanto sui giornali che seguivano gli eventi bellici circolava la notizia che l'esercito piemontese avesse creato una nuova arma (detta brulotto minatore), una specie di bomba lanciata da bordo delle navi piemontesi, allo scopo appositamente modificate, così potente non solo da riuscire a demolire le fortificazioni della città, ma anche da distruggere l'abitato interno alle mura e infliggere gravi perdite umane. Il generale Cialdini si arrabbiò con i giornali, accusandoli di essere irresponsabili, e avviò un'inchiesta interna per individuare chi avesse raccontato ciò ai giornalisti, violando il segreto militare. Il 6 febbraio tra gli schieramenti venne concordata una tregua di 48 ore per consentire di seppellire i morti, soccorrere i feriti ed evacuare 200 soldati borbonici feriti e malati, imbarcandoli su due navi piemontesi. Il comandante di Gaeta, generale Giosuè Ritucci, convocò il Consiglio di Difesa, a cui parteciparono 31 ufficiali superiori, a causa dell'epidemia di tifo, delle condizioni sanitarie scadenti e della truppa molto stanca. L'11 febbraio 1861 il re Francesco II di Borbone, per risparmiare ulteriore sangue, diede mandato al Governatore della piazzaforte di negoziare la resa di Gaeta. Un manipolo di ufficiali borbonici, composto dal generale Antonelli, dal brigadiere Pasca e dal tenente colonnello Giovanni Delli Franci, si recò a Mola di Gaeta via mare per trattare la resa e vi restò per due giorni. Nel frattempo, il generale Enrico Cialdini faceva continuare il bombardamento di Gaeta, giustificandosi dicendo che, pur contento di incominciare le trattative di resa, non poteva accogliere una richiesta di tregua, essendo sua abitudine continuare le ostilità finché non venisse firmata la capitolazione. Intorno alle ore 15 esplose la polveriera della batteria Philipstad e verso le 16 alcuni colpi dell'artiglieria piemontese fecero saltare in aria anche la polveriera della batteria Transilvania. Il 13 febbraio 1861 nella villa reale dei Borbone (già villa Caposele, attualmente Villa Rubino, a Formia) venne firmato l'armistizio; alle ore 18:15 le artiglierie di entrambi gli schieramenti cessarono le ostilità, entrando in vigore il cessate il fuoco a seguito della firma della capitolazione, e la guarnigione uscì dalla piazzaforte con l'onore delle armi. Il 14 febbraio, alle ore 8 circa, mentre le truppe dell'esercito piemontese entravano nella piazzaforte di Gaeta e si raccoglievano su Monte Orlando, come previsto dagli accordi di capitolazione, il re Francesco II di Borbone e la regina Maria Sofia, seguiti da principi e ministri, dopo aver ricevuto gli ultimi onori militari dalle truppe borboniche schierate sul lungomare di Gaeta e un caloroso saluto dalla popolazione civile sopravvissuta ai bombardamenti, si imbarcarono sulla nave da guerra francese Mouette per recarsi in esilio a Roma, ospiti del Papa. Quando la Mouette fu fuori del porto, le batterie di Gaeta esplosero 20 colpi di cannone come estremo saluto al re che partiva in esilio. Dopo la partenza dei reali borbonici il generale Enrico Cialdini poté prendere pienamente possesso di tutta la piazzaforte e alzare la bandiera tricolore sui bastioni di Gaeta. Il trattato della capitolazione di Gaeta stabiliva, tra le altre cose: «Gli ufficiali conserveranno le loro armi, i loro cavalli bardati e tutto ciò che loro appartiene e sono facoltati altresì a ritenere presso di loro i trabanti rispettivi». A tutti gli ufficiali del disciolto esercito borbonico delle Due Sicilie vennero concessi due mesi di tempo per decidere se riprendere servizio nell'esercito piemontese, conservando il grado militare di provenienza o se essere prosciolti dalla ferma militare. « ... [ ] ... Soldati ! Noi combattemmo contro Italiani, e fu questo necessario, ma doloroso ufficio. Epperciò non potrei invitarvi a dimostrazioni di gioia, non potrei invitarvi agli insultanti tripudi del vincitore. Stimo più degno di voi e di me radunarvi quest’oggi sull’istmo e sotto le mura di Gaeta, dove verrà celebrata una gran messa funebre. Là pregheremo pace ai prodi che durante questo memorabile assedio perirono combattendo tanto nelle nostre linee quanto sui baluardi nemici. La morte copre di un mesto velo le discordie umane e gli estinti sono tutti eguali agli occhi dei generosi. Le ire nostre d’altronde non sanno sopravvivere alla pugna. Il soldato di Vittorio Emanuele combatte e perdona.17 febbraio 1861 Cialdini.» (Vittore Ottolini, Castelfidardo, pp. 276-277) Quello dell’ immagine è il Dispaccio n° 2689 dei Telegrafi Sardi, modello T-27, del 13 febbraio (1861).
Indubbiamente, dal punto di vista storico, il telegramma è interessante, sentito il parere del Sig. Marino Bignami, esperto di questi documenti, ci fornisce ulteriori punti di conoscenza e approfondimento della materia, dicendo che: Gustavo Cavallini NdR: Vedi anche: La presa di Gaeta di Giuseppe Marchese | ||||||||||||||