di Daniela TESTA
Un po’ ovunque ci sono paesi che vanno morendo; i giovani li abbandonano per trasferirsi in città e i vecchi restano lì, immobili e immutabili come le loro case. A volte, però, ci sono località che pur essendo parte del nostro passato non sono cresciute con noi, non ci appartengono, non sono arrivate a far parte del nostro presente. Per me questo paesino è Cascano, in quel di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, non distante da quel Teano di garibaldina memoria.
Cascano, paesino di poco più di 1000 anime, è situato a 205 metri sul livello del mare, sulla sella che fa da spartiacque tra la piana del Garigliano e quella del Volturno. È un paesino molto antico; il suo territorio risulta antropizzato fin dall’epoca preistorica e alcuni reperti archeologici risalgono persino al 9000 a.C. ma è soprattutto con la conquista da parte dei Romani che questo territorio si sviluppò.
Cascano specialmente ebbe grande rilevanza quando, a seguito della modifica del vecchio tracciato della via Appia, si ritrovò sull’asse principale che univa il Lazio alla Campania. Allora vi era una fiorente produzione di manufatti in ceramica.
Con la caduta
dell’impero romano, Cascano visse un periodo di decadenza ma verso il X-XII
secolo l’intera area riprese vita.
Ci pigiavamo nella macchina dello zio, noi bambini seduti in braccio ai grandi, allegri e vocianti, richiamati periodicamente all’ordine dallo zio: “silenzio, devo guidare!”
Ed eccoci nella piazza del paese dove era meglio lasciare l’auto e proseguire a piedi per le strette e storte vie del compatto tessuto edilizio dai chiari influssi arabi, dove muri scrostati si alternavano a portoncini e finestrelle ingentiliti dai vasi di fiori. Lungo quelle viuzze si incontravano le donne in lunghi abiti neri che andavano a prendere l’acqua alla fontana portando con disinvoltura le cannate in equilibrio sul capo, e che ti salutavano con cortesia e malcelata curiosità. E lì in fondo, al di là del buio sottopassaggio a volta che attraversavo con timorosa rapidità, era la casa. Il nonno ci accoglieva con baci, timide coccole, con il caffè e qualche bevanda fresca.
In quella grande casa, mi affacciavo ai balconi lasciando vagare lo sguardo sulla campagna che a me “cittadina” sembrava senza fine. Mi aggiravo per le grandi stanze curiosando tra gli oggetti: gli spartiti di musica sul pianoforte della nonna, lì rimasti a perpetuarne la presenza, le
porcellane e i piccoli oggetti d’argento sui tavolini della sala, le fotografie dei familiari e di giovani amici che erano partiti per la campagna d’Africa inseguendo il sogno di Mussolini di un Impero Italiano e di una vittoria dell’Asse nella 2° guerra mondiale, e che non erano più tornati. Guardavo a lungo quei giovani sconosciuti che fieramente posavano nelle loro divise perdendomi nella malinconia dei loro sguardi, finché non venivo richiamata all’attualità dalla mamma: era tardi, era ora di tornare a casa.
Molti anni dopo, saltano fuori da una vecchia scatola di latta, di quelle dove si è soliti riporre quelle piccole cose che, si sa, saranno altri a gettar via, vecchie cartoline e lettere. E l’occhio della mente immediatamente recupera immagini che credevo perdute, piccoli frammentari ricordi di un paesino di poche anime che è stato teatro di larga parte della vita dei nonni, un paesino che negli anni si è ingrandito, continua a vivere la sua vita e a celebrare le sue feste, ma per me è rimasto fermo ed immobile ad un tempo che è passato.
|