S. P. del Regno delle due Sicilie
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Le relazioni diplomatiche e postali |
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di Giuseppe MARCHESE (N.U. Roma 1988) | |||||||||||||||
Le relazioni diplomatiche Il 12 Gennaio 1848 scoppia a Palermo la rivoluzione siciliana che si estende ben presto con estrema virulenza a tutta l’isola. Dopo un primo periodo in cui il potere venne esercitato da un Comitato Generale, da cui dipendevano i vari Comitati Periferici, venne adottato il sistema bicamerale previsto dalla Costituzione del 1812 - Camera dei Pari e Camera dei Comuni - mentre il potere esecutivo veniva esercitato da un Presidente del Governo e da 6 Ministri da lui nominati. Il 28 Marzo 1848 venne adottato lo stemma della Trinacria e il primo Aprile si decide di inviare a Roma, Torino e Firenze una bandiera nazionale. Lo stesso primo Aprile il Parlamento dichiara “a nome della Nazione agli altri Stati d’Italia che la Sicilia già libera ed indipendente intende far parte dell’unione e federazione Italiana”. Sono questi due atti che danno inizio alle relazioni diplomatiche tra la Sicilia e gli altri Stati d’Italia. Il 13 Aprile 1848 il Parlamento generale di Sicilia dichiara decaduto per sempre dal trono di Sicilia Ferdinando di Borbone e la sua dinastia, chiamando al trono un principe italiano. L’8 Maggio 1848 il Comitato misto presenta le argomentazioni della decadenza di Ferdinando di Borbone e la sua dinastia dal trono di Sicilia. È un atto importante che evidenzia lo stato d’animo dei siciliani e le accuse che essi muovono al loro ex re. Se ne riporta la parte iniziale: “A tutte le Nazioni civili: Il più grande atto di giustizia è compiuto. La Sicilia ha dichiarato decaduti dal suo trono, e per sempre, Ferdinando di Borbone e la sua dinastia”. Una famiglia, sistematicamente spergiura, che da 33 anni ha manomesso i sacri diritti di questa terra; che dal Regno libero e indipendente riduceva per violenza e per frode schiava e provincia; che, non paga di violare l’antichissima Costituzione di questo Regno nei patti giurati nel 1812, conculcava ogni umana ragione colle ferocie d’una tirannide unica al mondo: questa famiglia, non che decaduta, era anatomizzata al cospetto dei popoli e di Dio, prima che questo Parlamento col suo decreto del 13 Aprile 1848 lo avesse solennemente dichiarato. Ora, non è la giustificazione dell’esercizio di questo diritto che esso vuol proclamare innanzi i popoli e i governi del mondo; ma bensì le cagioni di un fatto compiuto, di un diritto quesito e consumato, appellandosi a quei principi di universale giustizia, che, così come gli individui, regger debbono i popoli e le nazioni. Per sette secoli e più Sicilia, sin dalla fondazione della sua monarchia, fu regno indipendente e libero: rappresentata né vari ordini dello stato raccolti in General Parlamento, concorreva alla formazione di proprie leggi, provvedeva alla propria finanza. Nel 1812, fatta accorta da violente usurpazioni del terzo Ferdinando Borbone, quando, cacciato dal trono di Napoli, per due volte qui rifuggiavasi, rinvigoriva i patti e le garanzie del suo statuto politico, che, come i tempi volevano, veniva giurato dalla nazione e da lui. Ma, non appena riacquistato il Regno di Napoli, Ferdinando rompeva ogni patto; e lui stesso crollava le basi di quei diritti dinastici - seppure altro diritto vi ha fuori della giustizia e del bene dei popoli - che lo Statuto Siciliano assicurava alla sua discendenza. Per esso era vietato allontanarsi senza aver pria col consenso del Parlamento stabilito da chi e con quali condizioni dovessero esercitarsi le facoltà dategli dalla Costituzione. Ed egli, senza adempiere a ciò, fermava altrove la sua dimora. Regno indipendente, sin dalla monarchia, era Sicilia; e, per la Costituzione del 1812, la sua corona incompatibile con altra sul medesimo capo. Ed egli osava chiedere e ottenere con frode nel 1815 a Vienna la cumulazione delle due corone in se stesso, e trarne indi pretesto ad annullare la indipendenza Siciliana. Lo Statuto sanciva, che, dov’egli riacquistasse il trono di Napoli, dovesse stabilire col suo primogenito alla pace generale, chi della loro famiglia dovesse regnarvi. Ed egli, al 1816, non che cedere il regno a un suo figlio, coll’arbitrarie leggi dell’8 e 11 dicembre, dichiarava Sicilia parte di un unico regno; annullava le antichissime istituzioni coeve alla monarchia; distruggeva le basi politiche fermate nel nostro Statuto; all’antico legittimo Potere Legislativo della Nazione sostituiva l’arbitrio del dispotismo regio e ministeriale; alle ragioni dinastiche la violenza d’una sognata conquista o restaurazione. Così violando ad un tempo le due massime condizioni della nostra vita politica, indipendenza e libertà, facevasi usurpatore, al vincolo legale sostituiva la forza, e decadeva nel diritto. Né ad altri ei poteva trasmettere quei diritti che egli stesso aveva perduto. Ai successi di lui, re nel nome, ma usurpatori e intrusi nel fatto, un solo mezzo restava onde rimettersi nelle vie della legittimità: tornare con fede intera alla osservanza della nostra Costituzione, e rifarsi legittimi per il libero assenso della nazionale rappresentanza. Il Parlamento, ammettendo che nei Borboni era la possibilità di ritornare legittimi, col reintegrare le patrie istituzioni e i patti giurati nel 1812, non fa che prestare omaggio a quell’eterno principio, unica sorgente d’ogni politico diritto, la salute del popolo nelle vie di Giustizia; principio che, come allora poteva riabilitare i Borboni ravveduti, così oggi, ostinati nelle usurpazioni e nella tirannide, li ha fatti decadere, e per sempre. Né le stesse arbitrarie leggi del 1816, manifesta infrazioni delle nostre politiche guarentigie, furono meta alle usurpazioni de due successori del terzo Ferdinando. Annullate le libere istituzioni politiche e municipali, la stessa larva di separata amministrazione e quel limite imposto alle annue tasse che fu detto non doversi varcare senza il consenso del Parlamento, venivano apertamente distrutti. Il potere assoluto, tirannico, in tutta la sua nudità, non ebbe più freno. Sa l’Europa, sa il mondo le inenarrabili enormità della denominazione di Ferdinando di Napoli in Sicilia. La storia ha già segnato il suo nome fra i despoti che più torturarono l’umanità. Esaurite le spoliazioni tutte de nostri politici diritti, era a lui riservato il mostrare fin dove potesse giungere la voluttà del dispotismo. Violato al 1837 nel Magistrato Sanitario l’ultimo avanzo d’indipendenza, e così dato varco al cholera di decimare il popolo Siciliano, aprivasi quell’ampia carriera di misfatti e cui freme l’umanità. Siracusa e Catania funestate dà massacri di Delcarretto, le popolazioni poste a taglia, a ruba, a sangue, e quel carnefice colmo di premi e di onori; un decreto di promiscuità d’offici, immaginato a scindere gli animi dei popoli dei due regni sotto la bugiarda apparenza di unificarli; i più importanti uffici invasi da non Siciliani, astiosi, inaccessibili, conculdatori non che d’ogni diritto, del decoro Siciliano; una vasta rete di polizia, illimitata, soverchiatrice d’ogni legge penale o civile, violatrice della sicurtà personale, e del santuario domestico; una censura, quanto stolta e arbitraria nel compiere ogni pensiero altrettanto insidiatrice e strumento di spionaggio e calunnia, carcerazioni ed esilii senza mandato o giudizio; la tortura nelle caserme del gendarme, e nelle oscure latebre dei commissariati; la pubblica sicurezza abbandonata all’arbitrio dei malfattori e pretesto alle violenze della vile canaglia di birri e gendarmi; le sedie vescovili, contro le patrie istituzioni, occupate da non Siciliani, la sanità del sacerdozio profanata da un sistema di spionaggio dichiarato dovere di officio pastorale; oltre metà della rendita pubblica consumata in Napoli, e gran parte frodata a vantaggio di quella finanza o del privato regio tesoro; tutta la macchina amministrativa congegno di oppressione e di furto, le opere pubbliche pretesto a insopportabili barzelli e dilapidazioni d’ogni natura; le stesse forme del potere dispotico violate a ogni istante; ministri illimitati nell’abrogare con un loro atto i decreti, impunemente ladri o carnefici; i più ignoti oscuri uomini, organi del privato gabinetto, onnipotenti nel male, le autorità, costituite in appartenenza, mere larve nel fatto, non obbligate neppure a resistenza in Sicilia; in Sicilia chiusa la via ad ogni onesto reclamo; schiusa in Napoli a tutte le umiliazioni perché meglio fossero i reclami spogliati; né pubblici contratti scissi a libito, violata la sanità della fede; lo spionaggio e la degradazione unico mezzo e fortuna; l’agricoltura, il commercio, l’industria sistematicamente avviliti, sovraccaricati da insopportabili e mal gravezze, da iniqui metodi di esanzione, vietato, anzi delitto, darle norme di Sicilia a quest’isola; anarchia amministrativa in somma il dispotismo in tale orribile accordo da dirsi meglio politico caos più che tirannide”. In queste veementi e vibranti parole vi sono tutte le ragioni dei siciliani e la determinazione di voler rinunciare a questo scomodo re. Ma veniamo alle relazioni diplomatiche che il Governo rivoluzionario siciliano instaurò o tentò di istaurare coi diversi Governi.
FRANCIA ED INGHILTERRA All’inizio della rivoluzione si trovano nei pressi di Sicilia le flotte inglese e francese. La determinazione dei siciliani e le possibili conseguenze derivanti da una situazione impossibile da controllare fanno si che queste due potenze tentino una azione moderatrice e mediatrice nei confronti dei nuovi governanti siciliani e verso il re di Napoli. Mediatori interessati, i quali volevano che la Sicilia assumesse una forma di Governo radicale, la repubblica, ovvero impedire che si eleggesse a re un principe non gradito. Le due potenze vigilavano quindi che lo status qui venisse mantenuto; instaurando buoni rapporti col nuovo Governo siciliano, ma non arrivarono mai a riconoscerlo ufficialmente. Queste intenzioni si possono riassumere nella dichiarazione dell’Ammiraglio francese Baudin che nel 1851 scrisse: “Fui uno degli agenti di questa politica. Nessun amico di re Ferdinando pur illuminato che fosse saprebbe farmene rimprovero, poiché si lavorava per lui e per tutta intera la causa italiana calmando la Sicilia ed aiutandola nel mantenere l’ordine”.
REGNO DI SARDEGNA Il Regno di Sardegna è uno dei tre destinatari della bandiera nazionale siciliana decisa nella seduta dell’1 Aprile 1848; il 18 Aprile si autorizza la partenza per la Lombardia di una compagnia di volontari al comando del colonnello La Masa. Successivamente vengono inviati a Torino due emissari del Governo siciliano il quale mira al riconoscimento da parte della dinastia sabauda e, infine l’11 Luglio 1848 il trono di Sicilia viene offerto al duca di Genova, Alberto Amedeo di casa Savoia-Carignano, secondogenito di Carlo Alberto. Un insieme di atti che mettono in evidenza la cura e l’importanza che si mette nell’avviamento delle relazioni diplomatiche con questo stato. Tuttavia queste “offerte” non sono ben accette al Governo e al re di Sardegna. Da una corrispondenza diplomatica si desumono infatti le seguenti note: “Pare intanto che il Ministero sardo non sia del tutto favorevole alla causa nostra, perché il Gioberti pensando al regno dell’Alta Italia, e sperando sempre negli aiuti del re di Napoli per la guerra contro l’austriaco, lascia molto a temere che i suoi atti politici siano tutti rivolti al conseguimento del suo desiderio....Firenze 17.1.1849 (1) ” e ancora: “Le mando il discorso di Carlo Alberto fatto alle camere piemontesi: discorso nel quale non si legge alcun motto della costituente, ma bensì primeggia il pensiero della composizione del regno dell’Alta Italia; la confederazione dei principi italiani; la guerra. Pensieri lodevoli e giusti, se fossero tutti rivolti al bene dell’Italia, e non all’ingrandimento della corona sabauda senza rispettare gli interessi degli altri Stati della penisola. Firenze 7.2.1849”. (2) Nessuna sorpresa quindi se il regno di Sardegna non accetta la bandiera e non riconosce il regno di Sicilia, coerente col suo disegno di consolidare il suo potere in Alta Italia mediante la guerra con l’Austria e con l’aiuto degli Stati del centro Italia. In questo contesto l’accettazione del trono di Sicilia da parte del suo secondogenito non era ammissibile, ed infatti Alberto Amedeo non accetta ed il trono di Sicilia rimane vacante.
GRANDUCATO DI TOSCANA Le relazioni diplomatiche con la Toscana cominciano con l’invio della bandiera e di un emissario a Firenze. Quest’ultimo trova ampia disponibilità nella corte Granducale che sfocia nel riconoscimento del regno di Sicilia avvenuto il 12.11.1848. Pare che dietro a questo riconoscimento - che portò alla rottura con Napoli - vi fossero le mire del Granduca il quale voleva costituire un regno nell’Italia centrale, reame su cui governare. Per ottenere ciò era indispensabile indebolire la posizione del re di Napoli, cosa che venne attuata attraverso il riconoscimento dell’indipendenza isolana da Napoli. A prescindere dalle intenzioni dei vari governi, sta’ di fatto che il governo Toscano fu l’unico a riconoscere quello di Sicilia.
STATO PONTIFICIO Anche a Roma e lo Stato Pontificio fu uno degli Stati in cui la Sicilia tentò di allacciare relazioni diplomatiche, sia nel periodo in cui regnava Pio IX che nel periodo della Repubblica Romana. Nel Marzo 1849 si è a un passo dalla unificazione tra il Governo Provvisorio di Toscana e la Repubblica Romana ed è indubbio che questa unione, seguita con interesse a Firenze dal rappresentante siciliano, avrebbe potuto costituire un modo per sbloccare l’ormai sterile situazione isolana. Con il disegno di portare la Sicilia dalla loro parte vengono inviati nell’isola, alla fine di Marzo del ’49, due emissari delle repubbliche di Firenze e Roma. I due diplomatici non ebbero eccessiva fortuna a Palermo e non riuscirono a “progettare mezzi di comune difesa”. Anche la progettata unione con la Toscana non venne attuata a causa del rovescio subito a Novara da Carlo Alberto. Si temeva la resa o l’armistizio del Piemonte che avrebbe avuto come risultato una calata degli austriaci in aiuto di Leopoldo II e Pio IX per rimetterli sul trono, per come in effetti poi avvenne. Come si vede i rapporti diplomatici subirono le influenze delle politiche dei singoli stati e del reciproco non fidarsi, che può essere riassunta in questa relazione di Carlo Gemelli diplomatico isolano presso la Toscana: “Ma la formazione del regno dell’Alta Italia, ancorché fosse veramente nel solo interesse della penisola, pure presenta sempre difficoltà insuperabili. Un rimprovero viene fatto al Governo siciliano. Questo Governo, si dice, fidò troppo nella diplomazia e nella mediazione delle potenze amiche. Fidò troppo nel suo diritto ad autogovernarsi appellandosi alle leggi dei padri. Occorreva armarsi, si diceva, per difendersi dalla invasione borbonica. Oppure armi ad armi. Alla luce dei fatti esaminati la politica di Ruggero Settimo e del Parlamento Siciliano non sembra demeriti. Risparmiati i lutti e gli orrori di una guerra civile, la restaurazione borbonica ebbe vita breve, anzi brevissima, e intervallata da continui focolai di moti spontanei, di turbolenze nelle città e nelle campagne, di insoddisfazioni che il potere centrale non riusciva a domare. Le aspettative di un Governo migliore e di una unificazione italiana sono frustati e sconfitti dalle forze della conservazione, e dagli intrighi e furberie di Governi e diplomazie. Il 1848 passa alla storia come una prova per quella Unità d’Italia che poi non si è fatta, sostituita da varie annessioni che hanno portato la Casa Savoia a governare sull’intera Italia. Se il 1848 e per esso le Repubbliche di Roma, Venezia e Toscana e con essi la Sicilia avessero vinto si avrebbe avuto probabilmente un migliore assetto politico post risorgimentale. Un assetto politico più centrale e senza lo pseudo brigantaggio meridionale, senza nord industriale a sud agricolo, senza fasci siciliani e le sterili politiche post risorgimentali incapaci di fermare il divario economico e colmare la diversità culturale tra nord e sud. NOTE (1) Storia delle relazioni diplomatiche tra la Sicilia e la Toscana negli anni 1848-49. Torino 1853. (2) Idem. (3) Idem.
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