digressioni gastro - filateliche a cura della Brigata di Cucina del Postalista |
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cuy frito | |||
Perù, 3 agosto 2009, Michel 2418 | |||
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In Europa è conosciuto fin dal ‘600 come animale da compagnia, è stato usato a partire dal secolo successivo nei laboratori di ricerca scientifica ed è perfino andato nello spazio un mesetto prima di Jurij Gagarin; in Sudamerica invece, e più precisamente nella regione andina, finisce abitualmente nel piatto; anticamente in quelli dei nobili, al giorno d’oggi anche in quelli serviti nelle trattorie popolari e nelle fiere di paese: stiamo parlando del porcellino d’India, nome familiare per la Cavia porcellus. Ma procediamo con ordine. Della regione andina tutti i roditori del genere Cavia sono originari e le prime tracce di addomesticamento risalgono alla notte dei tempi. La Cavia porcellus proviene molto probabilmente da ibridazioni tese ad ottenere un animale adatto ad essere allevato in spazi ristretti ed era in origine una vittima sacrificale usata spesso a scopo di divinazione e, in questo contesto, destinata anche all’alimentazione di sacerdoti e potenti. Col passare dei secoli però le abitudini di vita sono cambiate, e mentre in Europa, come dicevamo, la mitezza di carattere del porcellino d’India lo rese apprezzato come animale da compagnia, e la sua struttura fisica e la facilità di allevamento lo fecero prediligere già da Marcello Malpighi come animale da laboratorio, in Perù e nelle zone immediatamente confinanti si conquistò uno spazio sempre maggiore nelle tavole di tutti i ceti sociali. Perché questo simpatico roditore, che in Perù è chiamato cuy, nome derivato dal quechua quwi, è dotato di carni tenere, di buon tenore proteico, magre e praticamente prive di colesterolo, il cui sapore è molto simile a quello del coniglio. Se si considera che con il coniglio condivide la buona adattabilità a vivere in spazi ristretti, la facilità di allevamento e l’estrema prolificità, ecco che diventa facile capire perché venga allevato, anche su basi domestiche, a scopi mangerecci. E qui naturalmente entra in ballo, o meglio... si siede a tavola l’allegra Brigata di Cucina del Postalista, che si è spinta fino ai 2700 metri di Cajamarca, nel nord del Perù, dove il cuy lo friggono e lo accompagnano con patate anch’esse fritte, ma così come singolare è la maniera di friggerlo, altrettanto insolito è il procedimento di cottura delle patate. Un cuy può arrivare a pesare quasi due chili, ma per questa ricetta ne occorrono di più piccoli, dato che verrà fritto intero, dopo essere stato aperto “a libro”, salato e posto sotto un peso per una breve frollatura che consentirà anche l’eliminazione dell’acqua in eccesso. Nel frattempo si provvede a scottare per qualche minuto le patate in acqua bollente e a lasciarle raffreddare dopo averle tagliate a fette alte circa un centimetro. Il cuy intero viene messo quindi a friggere in abbondante olio, avendo cura (e qui sta la bravura del cuoco) di variare opportunamente la temperatura in modo di cuocerlo alla perfezione all’interno e, al tempo stesso, di renderlo ben croccante all’esterno. L’altro segreto che ogni cuoco conserva gelosamente è quello della miscela di peperoni (dolci e piccanti, freschi e secchi), aglio e altre erbe aromatiche: un battuto molto piccante che si unisce alle patate mentre queste soffriggono a fuoco vivace in qualche cucchiaiata dell'olio di cottura del cuy. Sul picante de papa così ottenuto viene disposto il cuy frito, accompagnando il tutto con l’immancabile chicha de jora, una sorta di birra di mais non filtrata a bassissima gradazione, il cui retrogusto leggermente acidulo ben si sposa con la nostra ricetta… achiy! |
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