digressioni gastro - filateliche a cura della Brigata di Cucina del Postalista |
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tartufo | |||
Italia, 31 ottobre 2015, Yvert 3623 | |||
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A guidare l’allegra Brigata di Cucina del Postalista nell’ennesima incursione gastronomica sarà stavolta un novizio benedettino capitato in Italia al seguito del suo maestro francescano, frate Guglielmo da Baskerville, sul finire del novembre 1327: “Vidi -racconta il giovane religioso- Severino che radunava i porcai e alcuni dei loro animali, con allegria. Mi disse che andavano lungo le falde del monte, e a valle, a cercare i tartufi.” Avrete già capito che il nostro novizio è Adso da Melk, e la non meglio identificata abbazia in cui Umberto Eco ambienta il suo grande romanzo “Il nome della rosa” si trova nel nord dell’Italia, sulle pendici settentrionali di una catena montuosa dalle cui cime si vede, a pochi chilometri il mare. L’Appennino Ligure, dunque e più precisamente il suo versante piemontese. Lo si capisce anche dal prosieguo della narrazione di Adso: “Io non conoscevo ancora quel frutto prelibato del sottobosco che cresceva in quella penisola, e sembrava tipico delle terre benedettine, vuoi a Norcia -nero- vuoi in quelle terre -più bianco e profumato”… e “quelle terre” sono senz’altro le terre di Alba e del Monferrato, zona di produzione del più apprezzato dei tartufi, il bianco Tuber magnatum; senza peraltro dimenticare l’altrettanto pregiato Tuber melanosporum, il tartufo nero invernale di Norcia. “Severino mi spiegò cosa fosse, -prosegue Adso- e quanto fosse gustoso, preparato nei modi più vari. E mi disse che era difficilissimo da trovare, perché si nascondeva sotto terra, più segreto di un fungo, e gli unici animali capaci di scovarlo seguendo il loro olfatto erano i porci. Salvo che, quando lo trovavano, volevano divorarselo, e bisognava subito allontanarli e intervenire a dissotterrarlo.” Da allora molte cose sono cambiate, e a cercar tartufi oggi si va con un animale più facile da gestire rispetto al maiale: il cane, e in special modo il lagotto romagnolo, anche se un umile bastardino adeguatamente addestrato potrà benissimo assolvere con pieno merito il suo delicato compito. Quello che invece non è cambiato è il gusto, già comunque apprezzato anche dagli antichi romani, a partire da Giovenale che attribuisce la creazione del tartufo agli effetti di una folgore scagliata da Zeus in prossimità di una quercia. E poiché la quercia era albero consacrato appunto a Zeus, e il “padre degli dei” andava famoso per la sua incessante attività sessuale (a lui è attribuita la paternità di quasi la metà dei personaggi mitologici greci), ecco che il tartufo si guadagnò la fama di cibo afrodisiaco: per il medico romano Galeno infatti "il tartufo è molto nutriente e può disporre alla voluttà." Quanto agli innumerevoli modi di preparare e gustare Sua Maestà il tartufo, noi della Brigata di Cucina del Postalista, anche a costo di far storcere il naso a più di uno chef stellato, rivendichiamo una certa semplicità: tagliatelle all’uovo fresche condite con burro fuso e pepe, lasciando ai commensali la libertà di scegliere se aggiungere anche una bella spolverata di pamigiano, e uovo fritto, sempre nel burro ovviamente, salvo che questa volta una fondutina di parmigiano ci sta bene, mentre il pepe può anche essere tralasciato… a completare il tutto, una pioggia di sottili lamelle di tartufo. In mancanza delle due varietà più pregiate, vanno benissimo anche uno scorzone (nero estivo) o un marzolino (bianco primaverile); alla larga invece da tubetti e barattoli di salse e intingoli industriali, che molto spesso si riducono ad un trito di funghi (quasi sempre di infima qualità) insaporiti con un “aroma naturale” che di naturale ha ben poco: il bismetiltiometano. |
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