digressioni gastro - filateliche a cura della Brigata di Cucina del Postalista |
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naporitan | |||
Giappone, 11 novembre 2021, Yvert 10810 | |||
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“Se siete italiani, cercate (o guardate) altrove…”: è questo lo strano avvertimento che vi può capitare di leggere se in Giappone state per entrare in uno dei tanti piccoli ristoranti monotematici che qui sono molto diffusi (e ce ne sono un po’ per tutte le specialità culinarie) attirati da quello che, nell’insegna, pare proprio essere un bel piatto di spaghetti riccamente conditi. E se l’insegna dovesse avere una traslitterazione occidentale, ecco che potrete anche leggere il nome della specialità che tanto assomiglia ai nostri spaghetti: naporitan… e siccome in giapponese, esattamente come in cinese, le lettere L e R non creano opposizione semantica e non sono dunque ben distinte, quel “napoRitan” vuol dire esattamente “napoletano”. Si tratta dunque di un piatto, magari troppo condito, di spaghetti alla napoletana? Ebbene no, e i giapponesi, che negli ultimi decenni hanno imparato ad apprezzare la cucina italiana e all’occorrenza sono in grado di servirvi un’amatriciana cotta e condita a puntino, se ne rendono perfettamente conto… di qui il cartello ammonitore. I nostri spaghetti naporitan sono in realtà un piatto che, secondo la moda dei nostri giorni, potrebbe essere definito come fusion, nato cioè dall’incontro di culture gastronomiche diverse, ma che in realtà affonda le sue radici molto più lontano, quando di cucina fusion nessuno ancora si sognava di parlare. Stiamo parlando dell’epoca del Rinnovamento Mejii, quando tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 l’imperatore Mutsuhito decise di aprire il fino ad allora isolato impero nipponico alle idee, alle usanze (e quindi anche al modo di mangiare) occidentali: nasceva così la cucina yoshuko, alla lettera cibo occidentale (ma adattato ai gusti giapponesi), ricca di specialità gustosissime, i cui nomi sono spesso la giapponesizzazione dei nomi originali, come omuraiso per omelette di riso, katsu per costoletta, hambaga per hamburger e korokke per crocchette. Ma gli spaghetti naporitan, che costituiscono la sovrapposizione di tre tradizioni gastronomiche (italiana, americana e giapponese), nacquero più tardi, nell’estate del 1945, nelle cucine dell’Hotel New Grand di Yokohama, dove aveva posto la sua base il generale MacArthur, comandante supremo delle forze alleate in Giappone. L’ospitalità in Giappone è sacra, anche se l’ospite è il comandante dell’esercito che ti ha appena sganciato sulla testa due bombe atomiche, e lo chef Shigetada Irie decise di preparare un piatto che facesse sentire a casa gli ospiti. Si ricordò che i militari americani avevano l’abitudine di condire i loro noodles con il ketchup, che costava meno e si conservava meglio della salsa di pomodoro, ma da cuoco di qualità quale era, utilizzò comunque una certa quantità di pomodoro, e arricchì il tutto con aglio, peperoncino e con gli ingredienti di cui le razioni militari americane erano ricche: bacon, funghi in scatola e peperoni sottaceto… e da bravo giapponese lasciò scuocere gli spaghetti fino a raggiungere la consistenza dei “suoi” ramen, per poi saltare il tutto nello wok, fino a formare una leggera crosticina sul fondo della padella. L’invenzione ebbe successo, e nel giro di pochi mesi era diventata popolarissima non solo tra gli occupanti americani, ma anche tra i giapponesi occupati, che ancora oggi ne sono ghiotti… e perfino noi dell’allegra Brigata di Cucina del Postalista, superata l’iniziale diffidenza e abbandonata ogni velleità di confronto con le epiche pastasciuttate nostrane, abbiamo finito con l’apprezzare questi spaghetti che di napoletano ormai hanno solamente il nome, e anche quello storpiato.
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