digressioni gastro - filateliche
a cura della
Brigata di Cucina del Postalista

hummus
Libano, 17 luglio 2020, Yvert 659
 
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Filatelia Tematica



Non parlava certo di cose da mangiare Gianna Nannini quando, nel 1986, cantava il “sapor mediorientale” del suo Bello e Impossibile, ma se un sapore mediorientale è riconosciuto come tale in tutto il mondo, ebbene questo è il sapore dell’hummus.

Nato sicuramente qualche millennio fa tra le popolazioni dei paesi asiatici e africani che si affacciano sulla parte orientale del Mediterraneo, il nome con il quale è oggi conosciuto in tutto il mondo è quello arabo levantino di hummus, che significa semplicemente “ceci” e ci arriva dritto dritto dall’aramaico hemsay, con lo stesso significato. In realtà il nome completo di questa salsa è hummus bi tahina, e quindi “ceci con la tahina”, che è una farina finissima ricavata dalla tostatura e dalla macinatura dei semi di sesamo.

Nella sua accezione più comune, si tratta di una crema ottenuta riducendo in purea i ceci preventivamente lessati e alcuni spicchi d’aglio, ai quali si aggiungono poi tahina, olio di oliva e succo di limone, oltre a svariate spezie che possono cambiare in tipo e dosi a seconda delle varianti locali; le più usate sono il cumino, la paprica, i semi di coriandolo macinati, il pepe nero e talvolta anche la menta.

Nel suo uso più comune questa salsa viene spalmata su sottili pezzi di pane azzimo, come la pita, o usata per imbottire piccole focacce e arricchire panini, ma viene molto spesso servita anche in accompagnamento ai tradizionali stuzzichini, che da queste parti vanno sotto il nome di mezzeh, e che sono innaffiati, a seconda delle credenze religiose, da birra, vino o tè.

Anche se generalmente viene associato alla cucina libanese, un po’ tutti i paesi dell’area mediorientale rivendicano una sorta di primogenitura sull’hummus, che al giorno d’oggi è entrato a far parte anche della quotidianità israeliana, dove è servito spesso caldo, come una sorta di crema di legumi molto densa, arricchita talvolta da ceci interi, pinoli tostati, fave stufate e condita con olio di oliva, prezzemolo, coriandolo fresco e spezie più o meno piccanti. Esiste addirittura una sorta di rivalità tra libanesi e israeliani su chi prepari il vero e migliore hummus, anche se gli esperti di gastronomia, gli storici e gli etnologi sono concordi nell’accettare l’origine araba del piatto.

In effetti, le prime attestazioni dell’uso culinario di un miscuglio simile a quello che mangiamo noi oggi ci vengono dall’Egitto e risalgono al periodo del califfato abbaside, intorno all’anno 1000, mentre le prime ricette (che prevedevano l’uso di aceto al posto del limone e non fanno cenno all’aglio) sono rintracciabili nel XIII secolo in almeno due manuali di cucina egiziani. Si pensa che gli ebrei della diaspora che vivevano in territori controllati dagli arabi abbiano mutuato da loro l’abitudine di mangiare hummus, trasmettendola poi ai loro correligionari dell’Europa (soprattutto orientale) che a loro volta la avrebbero esportata nel Nuovo Mondo.

In questo senso dunque il “tipico” hummus israeliano che oggi è possibile gustare nelle numerose taverne del centro di Gerusalemme, o nel quartiere Kerem HaTeimanim di Tel Aviv, costituirebbe una sorta di re-introduzione in questa parte della Palestina di un piatto che comunque qui (o poco distante) era nato più di un millennio fa. Mentre quello che, prodotto con i rinomati ceci della valle della Beqaa e preparato da più di 300 cuochi nel villaggio di al-Fanar, alle porte di Beirut, è entrato nel Guinness dei primati come il più grande del mondo, è con tutta probabilità quello più vicino all’hummus delle origini.

Noi dell’allegra Brigata di Cucina del Postalista ne abbiamo assaggiati di tutti i tipi e in tutti i paesi dell’area e, nell’impossibilità di stabilire quale sia il migliore, continueremo a gustare con immutata ghiottoneria il sapor mediorientale dell’hummus dovunque ci capiti di vedercelo offrire.

 

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