digressioni gastro - filateliche
a cura della
Brigata di Cucina del Postalista

lavash
Armenia, 29 dicembre 2017, Michel 1054
 
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Inserito nel 2014 nella lista dei Patrimoni Immateriali dell’Umanità dell’UNESCO il lavash, il pane tipico dell’Armenia, è secondo molti storici il prodotto di una delle forme più antiche di panificazione praticate dall’uomo. Tanto antica che l’etimologia del suo nome sarebbe addirittura da ricondurre alla radice aramaica lwš, che semplicemente significa “impasto”: un impasto di acqua e farina, a volte neppure salato, che veniva lavorato fino ad ottenere una sfoglia sottile da cuocere, almeno alle origini, sulle pietre arroventate che circondavano i primi fuochi.

Di lievito, in questo pane primordiale, manco a parlarne, perché una pagnotta di un certo spessore come quelle alle quali siamo abituati oggi non poteva certo cuocere a diretto contatto con una pietra rovente, o una lastra di metallo o terracotta poste sui carboni ardenti. E’ con questo procedimento che in tutta la regione mediorientale si preparava (e si prepara) il markouk libanese, il khubz arabo, la katyrma kazaka, il naan persiano e indiano, e decine di altre varianti locali di pane, tra le quali perfino il biblico kikkar e… la piadina romagnola.

Il pane dei nostri progenitori era dunque una sfoglia piatta, e tale rimase anche dopo che i persiani introdussero l’antesignano di tutti i forni, il tanur (che in India si chiama tandoor e in Armenia tonir): un recipiente di argilla di forma conica o cilindrica il cui fondo viene riempito di carboni ardenti. Nel tandoor, al cui interno si possono raggiungere temperature di oltre 600°C, si introducono i cibi da cuocere: spiedini di carne e verdure sospesi a un paletto posto trasversalmente all’apertura superiore o pezzi di carne gettati contro le pareti interne, alle quali aderiscono grazie all’intenso calore, per una sorta di cottura “alla piastra” in verticale.

Anche il lavash, accuratamente impastato e ridotto a una sfoglia sottile, viene introdotto nel tonir e fatto aderire alle sue pareti, e per cuocerlo a puntino basta un minuto: un’operazione apparentemente semplice che però richiede una manualità e un’esperienza che le donne armene si tramandano di madre in figlia. Il risultato è una specie di “mantello” lungo anche un metro e largo una cinquantina di centimetri, soffice e fragrante, che viene poi farcito con verdure, formaggi, carne e ogni altro genere di pietanze. Quello che non viene consumato fresco viene fatto seccare, e si può conservare anche per un anno; prima del consumo occorre spezzarlo e ammorbidirlo spruzzandoci sopra un po’ d’acqua, come fanno in Sardegna con il pane carasau.

Il termine “mantello” non l’abbiamo scelto a caso, perché nei matrimoni armeni è tradizione che la madre dello sposo ponga sulle spalle della sposina un lavash sfornato di fresco come augurio di prosperità e benessere. E anche il lavash secco ha un suo uso rituale nella celebrazione eucaristica secondo la Chiesa Apostolica Armena…

Del resto anche il rito eucaristico cattolico prevede l’uso di una forma di pane azzimo, e forse è proprio ad un pane simile al lavash che si riferisce la scrittura evangelica dell’Ultima Cena: “Gesù prese il pane e lo benedisse, lo ruppe e lo diede ai discepoli dicendo: Prendete, mangiate; questo è il mio corpo” (Mt 26,26).

 

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