digressioni gastro - filateliche a cura della Brigata di Cucina del Postalista |
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falafel | |||
Israele, 25 luglio 2000, Yvert 1500 | |||
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All’inizio furono le fave, e più precisamente le fave secche spezzate, ammollate almeno una notte nell’acqua, ridotte in purea, e addensate con farina, sempre di fave, fino a formare un impasto dal quale si potessero ricavare delle polpette tonde. E siccome nell’Egitto di due millenni fa si parlava la lingua copta, e in tale lingua (oggi usata solo nelle cerimonie solenni della religione copta) la locuzione pha la phel significava “con tante fave”, anche queste gustose polpette presero questo nome. Debitamente aromatizzate con sale e spezie varie, le nostre pha la phel venivano finalmente fritte nell’olio e consumate; cosa che in Egitto, soprattutto durante certe festività copte, si fa ancora… solo che adesso per indicarle viene usato il termine arabo ta'miya. Continuano ad essere chiamate invece falafel in tutto il Medio Oriente, dove si diffusero rapidamente, e dove le fave furono affiancate (e spesso sostituite totalmente) dai ceci e, in misura minore, dalle lenticchie. E sono chiamate falafel anche in tutto il mondo occidentale, America compresa, dove sono arrivate sull’onda della diaspora ebrea e dell’emigrazione palestinese. Cammin facendo, alle fave e ai ceci si sono aggiunti anche i fagioli, e al giorno d’oggi, con l’affermarsi della cucina vegetariana e vegana, le nostre polpette, sono uno dei cibi etnici più conosciuti al mondo. Considerate da molti, anche in virtù del loro ottimo contenuto proteico, le antesignane dei moderni hamburger vegani, nella loro versione più comune sono costituite da ceci ancora lavorati secondo l’antica ricetta copta, conditi con un battuto di prezzemolo, scalogno e aglio, e aromatizzati con cumino, coriandolo, peperoncino, semi di sesamo, mentuccia e scorza di limone. Le proporzioni di questi ingredienti, la cui lista non è peraltro esaustiva, variano ovviamente secondo usanze locali e gusti personali. Il risultato è comunque una polpetta fragrante e dorata che è di solito accompagnata da altri condimenti, come la salsa tahine, a base di semi di sesamo, o (ma questo solo in occidente) la maionese. Arricchite con insalata, cetrioli, cipolle, ravanelli e pomodori, le falafel vengono spesso servite nella “tasca” di una pita o avvolte in una sorta di piadina chiamata taboon, e sono servite come cibo di strada, stuzzichino, colazione veloce, mezzeh. Nella tradizione araba palestinese costituiscono il piatto forte dell’iftar, il pasto che durante il ramadan rompe il digiuno giornaliero dopo la preghiera del tramonto. Noi dell’allegra Brigata di Cucina del Postalista siamo ovviamente venuti ad assaggiarle in quella che al giorno d’oggi è considerata la loro culla, e cioè la costa orientale del Mediterraneo, dove le falafel sono considerate piatto nazionale sia in Israele che nello Stato di Palestina e largamente consumate anche in Libano. E le abbiamo assaggiate un po’ dovunque, incuranti delle polemiche, spesso aspre, che accompagnano le rivendicazioni di primogenitura su un piatto che, per le sue caratteristiche, soddisfa naturalmente sia i requisiti halal che quelli kosher… tanto più che, come abbiamo visto, le pha la phel arrivano dritte dritte dall’Egitto. Quali sono le migliori? Beh, dopo accurati e prolungati assaggi non siamo ancora riusciti a stabilirlo... dovremo tornare.
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