digressioni gastro - filateliche a cura della Brigata di Cucina del Postalista |
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mozzarella di bufala | |||
Italia, 25 marzo 2011, Yvert 3196 | |||
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La ricetta è apparentemente semplice: latte munto da non più di 15 ore, 5 ore per la cagliatura, ottenuta riscaldando il latte e aggiungendo cagliata proveniente dalle precedenti lavorazioni, e maturazione della pasta, che poi viene rapidamente fatta "filare" in acqua quasi bollente, per poi essere spezzata, anzi mozzata, a mano in pezzature che vanno dai 20 agli 800 grammi, ancora un paio d'ore in acqua potabile o salamoia, e la mozzarella di bufala campana è pronta per essere immersa nel liquido di governo e raggiungere le nostre tavole. Meno di 24 ore per passare dal produttore al consumatore, e questo ha spinto taluni a ritenere che l'origine di questo formaggio a pasta filata tipico della Campania e di alcune zone confinanti sia da ricondurre alla particolare conformazione orografica di una zona dove i monasteri erano di preferenza stanziati sui rilievi collinari, mentre le vallate acquitrinose erano l'habitat ideale per le mandrie di bufale introdotte verso il VII secolo dai Longobardi. Pare infatti che questa rapida lavorazione fosse fatta direttamente a valle, risolvendo così il problema del trasporto del latte a monte, e se si considera che per fare un chilo di mozzarella ci vogliono 10 litri di latte, il ragionamento (e non solo la mozzarella) fila. Secondo altri invece, i monaci avrebbero appreso il segreto di questa particolare lavorazione da alcuni loro confratelli precedentemente tenuti come schiavi nell'avamposto (ribat) saraceno di Traetto, attivo tra il IX e il X secolo vicino alle foci del Garigliano, e sarebbero stati proprio i saraceni a introdurre nelle zone paludose della costa il bufalo, importandolo dalla Sicilia, dall'Egitto e dalla Turchia. Il primo documento ufficiale in materia che abbiamo parla di "...una mozza e di un pezzo di pane..." forniti dalla principessa Aloara di Capua in occasione della processione annuale ai monaci dell'abbazia di San Lorenzo ad Septimum alle porte di Aversa, e risale al XI secolo, non permettendo quindi di dirimere il dubbio sulla paternità della bianca delizia campana. Quello che appare chiaro è però che fin dalle origini la città di Aversa è stata uno dei principali luoghi di produzione della mozzarella, e che lo è rimasta fino ai nostri giorni, tanto che quella di "aversana" è una delle specifiche consentite dal disciplinare DOP che regola la produzione della mozzarella di bufala campana. Tipico di Aversa è il cosiddetto treccione, che con i suoi 800 grammi rappresenta la più grande delle pezzature prodotte. Quanto al modo migliore di gustare la mozzarella, la Brigata di Cucina del Postalista non ha dubbi: freschissima, tagliata a fette alte qualche millimetro per apprezzarne anche olfattivamente la fragranza e la delicatezza, condita al massimo con un filo d'olio buono e un pizzico di sale. E volendo strafare, possono far compagnia a questa autentica regina della tavola un bel pomodoro ben maturo e due foglie di basilico. E se oggi va per la maggiore l'accoppiamento della mozzarella di bufala con un'altra regina della gastronomia campana, la pizza, i puristi storcono il naso, perché il disciplinare della Margherita prevede l'uso di mozzarella fior di latte rigorosamente vaccina... ...il che non toglie che anche quella di bufala ci stia proprio bene! |
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